Perché l'Italia è ancora immune dal terrore

Cristina Giudici
C’entrano l’intelligence, il caso e i numeri dell’islam. Ma ecco i campanelli d’allarme.

Milano. Dopo l’ennesima strage, questa volta avvenuta ai confini dell’Italia, non possiamo evitare di porci la solita annosa domanda. Perché nel nostro paese non ci sono stati ancora attentati? Perché sembriamo essere immuni dal terrore islamista? Abilità della nostra intelligence, mera fortuna o cos’altro? Risponde Marco Lombardi, sociologo dell’Università Cattolica che conduce un monitoraggio continuo sulla strategia del Califfato: “Davanti a ogni nuovo attentato in Europa è sempre più difficile capire le ragioni per cui fino ad ora siamo stati risparmiati – E’ vero, la nostra intelligence lavora bene nel contrasto e nella prevenzione, ma questo dato non è sufficiente a risolvere l’enigma perché ormai il modus operandi dei terroristi è quello mediorientale di sparare nel mucchio senza che nessuno possa prevederlo, come è successo anche a Nizza. Ed è anche vero che il governo italiano ha un basso profilo nelle missioni militari. Ma anche ciò non basta a spiegare perché per ora ci lascino sopravvivere. Io credo che sia solo una questione di tempo.

 

L’Italia ha un lieve vantaggio: non ha una terza generazione di immigrati e radicati nel tessuto sociale”. Secondo Arturo Varvelli, responsabile dell’osservatorio sul terrorismo dell’Ispi, c’è una mitologia da sfatare riguardo al basso rischio di attentati in Italia: “Per indole politica tollerante nel passato verso i fronti radicali e per posizione geografica che favorisce il transito di mujaheddin, il nostro paese è stato finora un hub più che un target per attentati, ma io credo che rispetto alla Francia sia solo per una una questione numerica. Abbiamo meno islamisti, ma non illudiamoci: come il resto d’Europa non abbiamo ombrelli sotto cui ripararci”. Anche una nostra fonte di intelligence ci risponde con due sole parole: “Non ancora…”. Insomma, sarebbe solo questione di tempo, Perché il lieve vantaggio che abbiamo, in sintesi è rappresentato dal fatto che il Viminale può ricorrere allo strumento dell’espulsione degli islamisti che non sono ancora cittadini italiani.

 

Eppure le cellule jihadiste formate da aspiranti martiri in Italia ci sono. E non più in sonno, come lo erano fino a dieci anni fa. I sorvegliati speciali nelle moschee, nelle carceri, nella parte più oscura del web o persino quelli che si ritrovano in luoghi-fortezza come appartamenti privati sono circa un migliaio. Continuano a fare proselitismo, a volte persino in modo sfacciato sui social network. Molte operazioni dell’antiterrorismo hanno portato in carcere maghrebini e balcanici, soprattutto kosovari che, oltre a cercare di indottrinare i loro fratelli, stavano meditando attentati. Anche se va detto che quasi tutti sono stati fermati quando la preparazione era ancora allo stato embrionale. Ma sbaglia chi pensa che noi siamo al riparo per via del transito di jihadisti in Italia che vanno in Francia o in Belgio. Anche noi abbiamo quartieri- ghetto che sono mini Molenbeek dove la radicalizzazione (e la presenza dei veli integrali) si sta espandendo velocemente, come accade ad esempio nel quadrilatero della vecchia San Siro, a pochi metri dallo stadio di Milano, dove delinquenza e integralismo religioso stanno creando una miscela esplosiva.

 

In Italia siamo esposti al terrorismo come il resto d’Europa. Nell’ultimo rapporto dell’intelligence inviato al Parlamento, gli analisti dei servizi segreti lo scrivono in modo netto: “L’Italia appare sempre più esposta come target potenzialmente privilegiato: terreno di coltura di nuove generazioni di aspiranti mujaheddin che vivono nel mito del ritorno al califfato e che, aderendo alla campagna offensiva promossa da Daesh, potrebbero decidere di agire entro i nostri confini”. Quindi se è vero che è solo questione di tempo, come sostiene la nostra intelligence, allora bisognerebbe allineare l’azione di prevenzione a una maggiore coerenza di alcuni magistrati che smontano inchieste giudiziarie sul terrorismo e potrebbero creare un vulnus.

 

Questo è il pensiero di alcuni investigatori che hanno visto rilasciare diversi indagati per terrorismo internazionale. Spesso dal tribunale del Riesame, anche se qualche volta le prove raccolte dagli inquirenti non superano nemmeno l’esame della convalida del fermo da parte del Gip. Oppure i processi vengono annullati dalla Corte di Cassazione, come è successo a 5 imputati fra cui l’imam di Andria, Hosni Hachemi Ben Hassen, ritenuto nel 2013 dalla Dda di Bari il capo di una cellula che indottrinava e addestrava combattenti. La notizia trapelata ieri dimostra quanto sia difficile dimostrare la fondatezza dell’accusa del terrorismo, soprattutto se i fatti sono compiuti all’estero, nonostante le leggi siano state adattate al nuovo contesto in cui operano i reclutatori.

 

A volte accade per indagini condotte male, sulla base di una serie di indizi che non reggono all’esame delle prove. Delle 23 persone finite in carcere nel 2015 per 270 bis (l’articolo del codice penale che punisce chi si associa a gruppi terroristici nazionali o internazionali, oppure si offre come reclutatore) cinque sono uscite poco dopo. Avevano sbagliato le procure? O c’è un baco nei tribunali? I magistrati interpellati dal Foglio concordano: gli strumenti giuridici ci sono, ma manca ancora la formazione culturale specifica in molti tribunali per saper distinguere un terrorista da un paranoico parolaio. E così potrebbe essere più difficile, come ribadisce spesso il ministro dell’Interno Angelino Alfano, “separare chi prega da chi spara”.