Il pontiere Pence
New York. La strage di Nizza ha sovvertito i piani dell’annuncio di Donald Trump del suo candidato vicepresidente, Mike Pence. La conferenza stampa prevista per ieri mattina è stata spostata a sabato, ma nel frattempo il candidato repubblicano ha ufficializzato con un tweet una nomina che era già ampiamente trapelata, ingenerando un cortocircuito comunicativo che per qualunque candidato sarebbe stato deleterio, per Trump è la regola. C’è un qualche metodo in questa confusione. Anche i ruoli nella gestione della tragedia per mano terroristica sono cambiati in corsa: il candidato ha offerto solidarietà e condoglianze all’alleato francese in modo composto, limitando i toni taglienti a un “quando impareremo?”, e ha lasciato al fidato Newt Gingrich il ruolo del poliziotto cattivo: “La civiltà occidentale è in guerra. Dovremmo testare chiunque ha un background islamico, e se credono nella sharia dovrebbero essere rimpatriati”, ha detto, aggiungendo che mettere dei “like” a post e siti legati allo Stato islamico o al Qaida dovrebbe essere un reato. Seguendo una pratica trumpiana codificata, in una successiva intervista Gingrich si è poi parzialmente corretto, ammettendo che gli sbandierati progetti di espulsione di massa sono irrealizzabili.
L’ex speaker della Camera era fra i finalisti dei nomi per il ticket repubblicano, ma Trump aveva già detto che, a prescindere dalla nomina, avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella campagna. Ieri si è capito che potrebbe fungere da mastino e aggressore d’avanguardia mentre il candidato fa una virata presidenziale, ben condensata nella scelta di Pence. Il governatore dell’Indiana è per molti versi l’anti Trump. Misurato nei toni, dotato di principi solidi ma aperto al dialogo, scettico verso le campagne negative e assai poco versato nell’arte dell’insulto, Pence si è fatto largo al Congresso e poi a Indianapolis con il marchio del battagliero conservatore sociale che vuole “vedere la Roe v. Wade nel cestino della storia”, un oppositore tanto dei matrimoni gay quanto delle unioni civili ma che all’occasione sa anche trovare il giusto compromesso. La disputa sulla legge dell’Indiana per la difesa della libertà religiosa è una perfetta rappresentazione in scala del suo modus operandi: il governatore ha firmato una legge accusata di avallare la discriminazione nei confronti degli omosessuali, e dopo lunghe e vocianti proteste, accompagnate dalla promessa di molte aziende di abbandonare lo stato per danneggiarne l’economia, ha accettato di introdurre un emendamento che ne annacqua lo spirito originale. Questo gli è valso il disprezzo dei conservatori più intransigenti, che ora protestano contro il loro idolo per la scelta troppo morbida, troppo poco antipolitica. Ann Coluter, pasionaria conservatrice, lo ha definito il “primo errore di Trump”.
Per converso, la posata ragionevolezza è assai gradita nei ranghi dell’establishment che si è adeguato controvoglia al verbo di Trump. Il senatore Marco Rubio l’ha definita una “grande scelta”, mentre per lo speaker della Camera, Paul Ryan, “non ci potrebbe essere persona migliore” di Pence per raffreddare le passioni del candidato. Ryan è uno degli allievi della scuola politica di Jack Kemp, con il suo brand conservatore riformista e aperto al dialogo, e pure Pence si è a lungo definito un “Jack Kemp republican”. Prima ancora che Trump ufficializzasse la scelta, Hillary Clinton ha lanciato il suo attacco al ticket, accusando Pence di essere un clone del candidato alla presidenza, una copia che si differenzia nello stile retorico e nella capigliatura, non nella sostanza. Le differenze nella sostanza, però, non mancano. Pence è stato sempre favorevole a tutti i trattati commerciali che Trump vorrebbe dare alle fiamme, anche perché l’economia dell’Indiana dipende largamente dalla lavorazione di materie prime importate e dalla commercializzazione dei prodotti lavorati; all’inizio della campagna ha detto che la proposta di chiudere le frontiere per i musulmani è “offensiva e incostituzionale”, ha un’impostazione internazionalista sugli affari esteri, innervata da un idealismo che lo colloca più vicino a Hillary che al realismo isolazionista di Trump. Nel 2012 i fratelli Koch, che con disdegno si sono sfilati dalla cordata dei finanziatori di Trump, hanno cercato di convincerlo a correre per la presidenza, e sarà interessante vedere se decideranno di salire sul carro per la campagna generale. Se giovedì negli incontri delle commissioni che preparano la convention, il movimento NeverTrump è stato ucciso anche formalmente, la nomina di un rappresentante del conservatorismo più presentabile sembra fatta apposta per creare un ponte con gli scettici animatori di fronde esplicite o sotterranee. Che la scelta implichi un contrasto netto, forse inconciliabile all’interno del ticket non preoccupa Trump: finora se n’è infischiato del principio di non contraddizione, e non ha deciso di iniziare ieri a tenerne conto.