Un uomo scatta un selfie davanti a un carroarmato usato dai militari per bloccare il ponte sul Bosforo durante il tentato colpo di stato in Turchia (foto LaPresse)

Nizza, Turchia e le parole giuste per inquadrare il nuovo totalitarismo: nazismo islamico

Claudio Cerasa
Se non si chiamano le cose con il loro nome, se non si capisce che lo Stato islamico è il totalitarismo del nostro secolo, si continuerà a vivere nell’ambiguità e si ritarderà l’unica azione utile che potrebbe portare a ridimensionare la minaccia islamista: l’esportazione della democrazia e i boots on the ground.

Che cosa hanno in comune il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Sandro Gozi, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e lo stragista di Nizza armato contro gli infedeli dai precetti velenosi del Corano? Apparentemente nulla, ma in realtà i tre hanno qualcosa che li unisce. Qualcosa che si lega direttamente al senso di due parole importanti, centrali in questa fase storica in cui viviamo: nazisti islamici. Sandro Gozi, responsabile delle politiche europee del governo, venerdì pomeriggio ha usato quest’espressione, creando qualche malumore all’interno di Palazzo Chigi, come notato dal Corriere della Sera di sabato, e l’ha usata inserendola nella stessa cornice utilizzata in Francia dal premier Manuel Valls: “Vinceremo noi la battaglia contro i nazisti islamici”. Ci sono alcune parole che non si possono dire, che vengono respinte, che vengono ignorate, che vengono spesso ricacciate nel tombino del politicamente corretto e l’islamonazismo è una di queste.

 

E’ un dibattito antico (Bush, Hitchens) ma purtroppo è un dibattito ancora attuale ed è difficile combattere il nemico se non lo si chiama con il proprio nome e se non si ammette che la cultura di odio generata da un’interpretazione radicale dei versetti del Corano ha prodotto un’ideologia, l’islamismo, che rappresenta il terzo totalitarismo del ventesimo secolo dopo il comunismo e il nazismo. Si può negare che la minaccia costituita dallo Stato islamico sia inferiore rispetto a quella rappresentata dal nazismo? Si può continuare a ignorare che gli islamisti che sognano di tagliare la gola all’occidente mescolano nella propria costituzione materiale i contenuti del Mein Kampf di Adolf Hitler e dei Protocolli dei Savi di Sion insieme all’Islam radicale e in alcuni casi, come succede ad Hamas, al nazionalismo? Si può continuare a coprirsi gli occhi e a considerare dei lupi solitari, delle semplici mele marce, tutti coloro che fanno saltare in aria brandelli dell’occidente in nome del loro dio?

 

Sandro Gozi, caso raro nel nostro paese, ha chiamato le cose con il loro nome, nazisti islamici, capendo forse che senza definire con esattezza il nemico è come se non si volesse vedere la sua visione totalitaria del mondo, il suo antisemitismo, il suo odio per gli infedeli, per gli omosessuali, i cristiani, la sua pratica delle fosse comuni, il suo culto della morte, i suoi crimini contro l’umanità. Ma da un certo punto di vista, senza chiamare le cose con il loro nome è difficile anche capire cosa rappresenta il golpe sanguinario che ha colpito la Turchia nella notte di venerdì. Da dove nasce il colpo di stato contro Erdogan? Nasce naturalmente da ragioni di carattere politico ma nasce anche in un contesto particolare come quello turco, in cui il presidente eletto ha progressivamente sepolto l’idea laica di paese che aveva il grande Atatürk per sostituirla con un regime ad alto tasso di islamismo.

 

Da una parte, Erdogan ha facilitato o se volete non ostacolato sul suo territorio il transito di foreign fighters verso la Siria, accettando la possibilità, per odio nei confronti del regime sciita guidato da Assad e spinto dalla doppia idea di riempire il vuoto di potere lasciato dal regime alauita di Damasco e di impedire ai curdi di costituire una regione indipendente ai confini del Kurdistan, che i nazisti dello Stato islamico si rinforzassero, salvo poi pagare sulla propria pelle, con una raffica di attentati, il rafforzamento dello stesso Stato islamico. Dall’altra parte, invece, nella convinzione di trovare un nuovo grande collante per tenere unito un paese sfilacciato, Erdogan ha deciso di alimentare in ogni modo la propria democrazia religiosa (in pochi anni ha edificato 17 mila moschee), uccidendo la libertà di espressione (i dissidenti vanno in carcere), ricoprendo nuovamente le donne con il velo (Erdogan ha eliminato il divieto che imponeva alle donne turche di avere il volto scoperto negli uffici pubblici e la moglie di Erdogan, Emine, ha scelto non casualmente di comparire in pubblico costantemente velata), riportando provocatoriamente i muezzin a Santa Sofia (ex basilica cristiana trasformata in un museo laico nel 1935 dal fondatore della Turchia Atatürk), mostrando segnali continui di antisemitismo (nascosti dietro gli accordi di realpolitik con Israele) e provando a declinare nella modernità i famosi versi del poeta Ziya Gökalp già fatti propri da Erdogan in passato: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati”.

 

Il tentato golpe di venerdì notte, conclusosi nel sangue, è avvenuto per mille ragioni anche contraddittorie, ma alla base di quella spinta eversiva c’era anche questo: la paura delle forze armate, tradizionali custodi dello Stato laico, che il loro paese, oltre che a giocare una partita ambigua con i fondamentalisti islamici, diventi sempre di più una repubblica fondata sull’islam. Il golpe non è riuscito (e bisogna capire anche quanto sono fondate le accuse di Erdogan che ha indicato come ispiratore l’esiliato Fethullah Gülen) ma da Nizza a Istanbul passando per Raqqa il tema dei temi resta quello: se non si chiamano le cose con il loro nome, se non si capisce che lo Stato islamico è il totalitarismo del nostro secolo, si continuerà a vivere nell’ambiguità e si ritarderà l’unica azione utile che potrebbe portare a ridimensionare la minaccia islamista: l’esportazione della democrazia, gli stivali sul terreno, la guerra senza confine contro i nuovi nazisti.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.