Tra Turchia, Iran e terrorismo, a Renzi serve una bussola
Una volta avviato, il meccano della storia ha preso a girare senza sosta. Dovunque si volga lo sguardo, è chiaro che si stanno muovendo forze a lungo sopite ma evidentemente mai del tutto scomparse. Il mondo sunnita è in torsione per via dell’espansione sciita, e mentre scriviamo questa nota un fremito percorre tutto il Golfo e il suo perno saudita in attesa delle presidenziali americane in autunno. Per molti versi, la cosa vale anche per la Turchia, a lungo sospettata di lavorare per la creazione di un Sunnistan mesopotamico e per questo ai ferri cortissimi con la Russia di Putin, a braccetto di Teheran in un insolito sodalizio. Da qualche tempo a questa parte, Washington e Mosca sembrano peraltro aver trovato una linea comune nella distruzione del Califfato. Anche Erdogan ha mangiato la foglia e ha provato a ricucire a tempo record con Mosca. Ma se i Russi non hanno smesso di desiderare per sé un “giardino mediterraneo” nella zona costiera antistante Cipro, i Turchi sono oggi alle prese con il rinvigorito nazionalismo curdo e con spaccature interne profonde. Per chi non se ne fosse convinto, valgano le riprese televisive del tentato putsch di venerdì sera.
Un bel problema, che si colora ulteriormente di sostanza quando si consideri lo status di membro NATO di Ankara. Un problema, quello turco, che investe in pieno l’Italia. Non tanto perché Roma coltivi amicizie con i nemici di Erdogan – i rapporti di Gulen nel nostro paese sono ad esempio radi e perlopiù circoscritti alla Comunità di Sant’Egidio – bensì per le numerose partite che vedono Italia e Turchia entrambe coinvolte. Come la tragedia dei migranti, in cui Renzi si è recentemente fatto sfuggire (intenzionalmente?) un “non mi fido di Erdogan” all’indomani della rimozione del primo ministro turco Davutoglu. O come la stabilizzazione della Libia, in cui Roma ha inizialmente appoggiato Haftar, l’uomo forte degli egiziani, salvo poi ripiegare fulmineamente su Sarraj, supportato anche dai Turchi. E sarà pur vero che nelle faccende degli Stati non conta l’amore bensì solo gli interessi, ma ultimamente ci si capisce ben poco. E il tatticismo italiano, marchio di fabbrica della Prima Repubblica, sembra aver lasciato spazio all’improvvisazione dell’ultimo secondo, vissuta da molti Paesi come vera e propria ambiguità di Roma. Come, altrimenti, spiegarsi la batosta di fine giugno, quando l’Italia ha visto sfumare la propria corsa al consiglio di sicurezza ONU?