Né l'aritmetica né la soppressione del dibattito cureranno le ansie dell'Ue sull'immigrazione
Roma. Il numero di immigrati sbarcati sulle coste italiane tra gennaio e giugno ha raggiunto quota 69mila, ha fatto sapere ieri l’agenzia Frontex, in linea con lo scorso anno nonostante un sensibile aumento nel mese di giugno (22mila arrivi) rispetto a maggio. Dal ministero dell’Interno prevedono che alla fine del 2016 registreremo dati simili a quelli del 2015, quando gli sbarchi furono 153mila, in linea con il 2014 già da record (170mila sbarchi via mare). Anno dopo anno, vacilla l’argomento – aritmeticamente plausibile in prima battuta – di quelli che valutano l’efficacia delle politiche migratorie a suon di percentuali e sostengono che qualche migliaio di arrivi non può porre problemi di sorta a una popolazione complessiva di 60 milioni di abitanti. Vacilla questo argomento anche perché “l’ansia dell’opinione pubblica rispetto al fenomeno migratorio non è correlata in maniera affidabile al mero incremento numerico della popolazione straniera, o alla crisi economica e all’elevata disoccupazione”, si legge in uno studio appena pubblicato dal Transatlantic Council on Migration, un forum euroamericano animato da uno dei più autorevoli think tank di Washington in materia, il Migration Policy Institute, spesso consultato dalle stesse autorità dell’Unione europea e finanziato tra gli altri dai governi di Germania, Olanda, Norvegia e Svezia. A quei commentatori o a quei politici che risponderebbero a suon di alzate di spalle di fronte alle preoccupazioni dell’opinione pubblica, il pensatoio americano suggerisce di guardare a quei fattori che comprensibilmente allarmano i cittadini europei. Invece che compulsare le statistiche demografiche a bocce ferme, per esempio, sarebbe meglio fare attenzione ai “flussi repentini (di immigrati, ndr) che sorpassano la preparazione e la capacità di un paese o di una comunità locale di farvi fronte”.
Si prenda l’Ungheria, paese europeo giunto agli onori della cronaca per le sue misure restrittive draconiane contro gli ingressi illegali: nel 2015, Budapest ha ricevuto 155mila richieste d’asilo, dopo le 43.000 del 2014. Poca cosa – verrebbe da pensare – rispetto agli effetti della politica delle “porte aperte” della Germania. Tuttavia Demetrios G. Papademetriou e Natalia Banulescu-Bogdan, autori del rapporto, ritengono che nel dibattito pubblico ungherese abbia pesato di più la quadruplicazione delle richieste d’asilo nel giro di un anno e il fatto che il paese magiaro sia diventato nel 2015 quello con il maggior numero di domande d’asilo pro capite nell’Ue. In altri termini, è la tendenza degli arrivi che conta, specie se in rapida e inattesa crescita.
L’approccio che potremmo definire “tecnocratico” all’immigrazione tende poi a non considerare “i cambiamenti nei valori pubblici e nell’identità delle comunità” che pure sono connessi all’immigrazione. La fredda aritmetica non cattura il fatto che “un afflusso di nuovi arrivati, visibilmente o religiosamente diversi, può essere visto come una minaccia alle norme e ai valori che tengono assieme una società”. Atti violenti o di terrorismo, se perpetrati in numero maggiore da uno specifico gruppo – etnico o religioso – non fanno che “alimentare ansia e sfiducia in interi gruppi di popolazione”. Soprattutto, il consiglio del pensatoio alla classe politica europea è il seguente: non pensate di poter sgonfiare quelle che ritenete “paure irrazionali” dei cittadini con un atteggiamento parimenti irrazionale, cioè la chiusura ermetica del confronto pubblico sulle politiche migratorie rispetto a ogni critica, magari etichettandola di volta in volta come insensata o razzista.
L’aspetto più originale dello studio del Migration Policy Institute è proprio quello che indaga sul nesso tra le politiche pubbliche decise dai governi europei in materia di immigrazione e le rispettive opinioni pubbliche. Dal quale si evince che le solite preoccupazioni di tipo sociale, economico e securitario sono aggravate da un ulteriore elemento: “Molte persone non hanno più fiducia nel fatto che i governi siano capaci di gestire i flussi dei migranti e l’impatto che gli immigrati hanno poi sui servizi pubblici e sullo spazio civico”. Poco importa il fatto che un governo si prodighi in annunci di massima generosità verso i nuovi arrivati o all’opposto di massima fermezza: se la percezione prevalente è che le classi dirigenti siano in balìa degli eventi, cresce il sentimento di ansia rispetto al complessivo fenomeno dell’immigrazione. “Le opinioni pubbliche in giro per il mondo vogliono che i governi dimostrino di poter stabilizzare i flussi migratori, mantenere ordine e legalità, assicurarsi che i nuovi arrivati apprendano la lingua locale e si comportino secondo le regole della società che li accoglie, rispettando i suoi valori e le sue istituzioni. Invece in molti paesi destinatari di flussi d’immigrazione, la sensazione è che questo spostamento di persone stia avvenendo in maniera caotica e non pianificata, andando contro gli stessi obiettivi dichiarati dai governi e tradendo le promesse delle autorità pubbliche”. A questo punto la percezione predominante nell’opinione pubblica diventa quella secondo cui i governi, volenti o nolenti, sono in grado solamente di rispondere alle istanze dei nuovi arrivati e non invece degli attuali residenti. E’ in un contesto simile che si rischia, secondo lo studio, di “spingere i dissidenti nelle braccia aperte di partiti opportunistici di destra, continuando ad ampliare il solco che si è scavato tra loro e le élite politiche e sociali negli Stati Uniti e nell’Unione europea”.
Non mancano gli esempi concreti di questo meccanismo, in negativo o positivo che sia. In Europa l’impotenza dei governi è parsa massima agli occhi dei cittadini, scrivono Papademetriou e Banulescu-Bogdan, nel momento in cui il sistema di Dublino – che avrebbe dovuto regolare le richieste d’asilo nei diversi stati d’approdo – è stato prima rottamato dagli eventi e poi modificato sulla scorta dell’emergenza, divenendo “completamente irrilevante”. Dall’Australia, invece, arriva un esempio di segno opposto, come notato già su queste colonne: in quel paese gli ultimi governi conservatori e laburisti, operando una stretta decisa ed efficace sugli arrivi illegali via mare, sono sembrati maggiormente in grado di regolare il fenomeno e ciò ha reso ancora più accettabili livelli sostenuti di immigrazione economica e in particolare qualificata. Ecco insomma un’altra smentita delle spiegazioni tutte aritmetiche del fenomeno migratorio: “L’impressione che nessuno sia responsabile e che le élite economico-sociali abbiano perso ogni contatto con le preoccupazioni del cittadino comune possono generare risposte esagerate anche di fronte a flussi contenuti”.
In conclusione, “l’errore peggiore che i governi possano compiere durante crisi simili – si legge nel rapporto appena pubblicato – è liquidare l’ansia diffusa rispetto all’immigrazione come illegittima o come segno di intolleranza, xenofobia o razzismo. Comportarsi così alimenta soltanto le ansie e gli estremismi”. Per quanto possa risultare complesso, “i tentativi di criticare apertamente o di discutere argomenti difficili non devono essere posti in conflitto con gli obblighi legali e umanitari: i governi che proteggono la libertà d’espressione e incoraggiano un dibattito vigoroso conquisteranno uno spazio maggiore per esplorare soluzioni politiche diverse e innovative”. Tutto il contrario di quello che finora è accaduto nell’Unione europea e soprattutto in Italia. Nel dibattito del nostro paese si oscilla ancora – a sei anni dal primo picco di arrivi di immigrati via mare dopo l’inizio delle primavere arabe – tra l’evocazione della solita “emergenza” e l’auspicio di un dibattito a senso unico, magari da condire con statistiche solo virtualmente significative e rassicuranti.