Perché il leave piace anche ai cosmopolitan chic della City
Frenesia da post voto. Tutti cercano di capire cosa si è innestato, nel Regno Unito, per indurre diciassette milioni di inglesi a votare a favore della Brexit. Un popolo così decent, si dice, rispettabile, con una storia politica e democratica importante. La geografia elettorale pol. corr. del referendum sulla permanenza o meno nell’Ue esige che il cosiddetto popolino, i Little Englanders volgari che mangiano pane bianco, parlano con le vocali aperte e leggono il Sun, abbia votato “Leave”. I giovani e i cosmopolitan-chic della City, istruiti e globalizzati, hanno invece votato in massa per il “Remain”, insieme a scozzesi e irlandesi del nord che vedono in Bruxelles un salvacondotto per la causa indipendentista. Non è così, la situazione è un po’ più complessa avrebbe detto qualcuno, e a ragione. Il facile manicheismo bene-male, ignoranza-cultura, proglobal-noglobal non porta molto lontano se si vuole provare a delineare un’antropologia della Brexit anche solo vagamente accurata, perché se è vero che gran parte della popolazione WOW (White, Old, Working class) ha votato “Leave”, è pure vero che importanti strati dell’accademia e della cultura hanno fatto altrettanto, anche se per ragioni opposte.
Stephen Davies, per esempio, storico dell’economia e direttore educazione all’Institute of Economic Affairs, think tank libertario di Londra, si è definito un “marginal leave voter”: è rimasto indeciso fino all’ultimo, e alla fine ha pensato che fuori dall’Unione europea il Regno Unito avesse più possibilità di realizzare “un programma politico radicale all’insegna del libero mercato e del commercio internazionale”.
Il suo conterraneo Iain Murray, che prima di stabilirsi a Washington DC come vicepresidente del Competitive Enterprise Institute ha contribuito a privatizzare le ferrovie di Sua Maestà per conto di John Major, si dice d’accordo con lui e aggiunge che “se il Regno Unito rimane nel mercato comune poco o nulla cambierà dal punto di vista della regolamentazione: pur essendo formalmente fuori dall’Ue si dovrà comunque rispondere alle normative commerciali europee, per cui ciò che si deregolamenta a Londra verrebbe riregolamentato a Bruxelles, vanificando ogni tentativo liberista”. Il rischio che si corre, dunque, in questi delicati mesi di negoziazione con l’Europa, è l’effetto Penelope: la regina di Itaca assediata dalle avances dei Proci di giorno tesseva come una forsennata e di notte disfaceva il tutto, rimanendo sempre fedele a Ulisse nonostante la promessa di concedersi in sposa una volta finita la tela. “L’Ue è da sempre un’unione doganale chiusa e protezionista nei confronti del resto del mondo, basta citare la politica agricola comune che esclude dal mercato europeo i produttori africani, impedendo loro di godere dei vantaggi comparati che altrimenti avrebbero”, ci dice Murray, “le élite europee dovrebbero abbandonare il progetto dell’unione politica all’insegna della sussidiarietà e considerare invece un federalismo competitivo all’americana: negli Usa i singoli stati sono veri laboratori democratici in cui si provano regole e leggi diverse per poi valutare in base ai risultati quali siano le migliori da riprodurre, e quali invece vadano ripensate”.
Oltre Manica, ospitato come speaker a un seminario del think tank liberale parigino IES-Europe, Pascal Salin confessa al Foglio che comprende la decisione degli inglesi, ma la depreca. Economista francese di lungo corso, docente emerito a Parigi e autorevole esponente della Scuola austriaca, Salin è stato consulente del Fondo Monetario Internazionale e presidente della celebre Mont Pelerin Society: “Ho sempre ritenuto che fossero possibili due diversi approcci all’integrazione europea, da un lato quello liberale che consiste nel dire che l’integrazione può esistere fin tanto che le persone possano commerciare, fare scambi ed entrare in contatto tra loro senza interferenze dallo stato. Inizialmente sembrava fosse questo l’approccio adottato nella creazione del mercato comune e quindi ero totalmente favorevole, anche se avrei preferito un mercato mondiale piuttosto che esclusivamente europeo, ma ogni cosa a suo tempo. L’altro approccio, con cui non mi trovo affatto d’accordo e che è ora dominante, consiste nel dire che serve maggiore centralizzazione delle decisioni politiche nonché maggiore armonizzazione delle regolazioni e della tassazione: è un approccio del tutto distruttivo perché significa meno competizione e meno libertà. Temo che la Brexit, con l’uscita di scena del più liberale e atlantista dei paesi europei, accellererà il processo”.
Salin è da sempre un promotore del free banking à la Hayek, che consiste in liberalizzare e privatizzare l’emissione di moneta, ma al momento non vede reali margini di riforma in questa direzione: “Non ero a favore della creazione dell’euro perché ho sempre pensato che la competizione monetaria fosse la cosa migliore. Ora che l’euro esiste, però, ce lo possiamo tenere senza troppi pro-blemi: il punto è che la gente ha l’illusione che uscire dall’Ue o dall’eurozona sia la panacea di tutti i mali. In realtà dipende sempre da cosa si fa dopo: se si usa l’opportunità per diventare più inter-ventisti e fare politiche espansive il risultato sarà tragico. Non è però il caso degli inglesi, ovviamente”.
Tom Palmer, direttore della Cato University e senior fellow del Cato Institute, il centro studi di Washington fondato da Murray Rothbard, dice che “la vera domanda che deve farsi un liberale è: dopo la Brexit avremo più o meno libertà? Fossi stato inglese avrei votato Remain, perché temo che la risposta sia meno”. Una parte consistente di chi ha votato “Leave”, abbastanza consistente, alla fine, da fare la differenza, lo ha fatto per porre un freno all’immigrazione dice Palmer: “La campagna per il Leave è stata incentrata sopratutto su bugie e false promesse da parte di alcuni dei brexiters, in particolare di più welfare e più spesa pubblica”, personaggi come Boris Johnson e Nigel Farage hanno fomentato xenofobia e invidia sociale e cavalcato il mito delle frontiere chiuse per poter salvare la patria, ma ora le loro balle stanno venendo in superficie e la delusione sarà tanta, il libertarian di Washington ne è convinto.
Qui in Italia il clima d’opinione non è molto diverso: Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, dice al Foglio che non è troppo sorpreso dal risultato del voto, “non da oggi quando i cittadini europei hanno la possibilità di votare sull’Ue si divertono molto a votare contro”. Sulle opportunità che la Brexit offrirebbe all’Italia di attrarre investitori in fuga dalla City è piut-tosto scettico, “che si spostino in Italia perché uno gli fa la No-Tax area nella zona Expo mi sembra ridicolo. Come al solito noi guardiamo a questo problema un po’ all’italiana, come se si trattasse di mettere sul piatto quattro sussidi così da attrarre le aziende”. La mala-giustizia, l’elevata tassazio-ne e l’incertezza del diritto sono i flagelli che impediscono al nostro paese di risultare attraente, tant’è che se davvero tutte queste aziende cercheranno un nuovo nido finanziario secondo Mingardi guarderanno sopratutto all’Irlanda, dove possono trovare una cultura simile e un fisco amichevole.
“Bizzarro, comunque, che in Italia pensiamo che si possano fare politiche per le imprese italiane, che continuano a soffrire come hanno sempre fatto, e politiche per quattro grandi investitori internazionali da calamitare in qualche modo. Gli investimenti esteri cominceranno ad arrivare in Italia in modo più copioso e rilevante quando il sistema delle regole con cui giocano tutti, quindi anche le imprese italiane, sarà riformato seriamente”. Come dargli torto.