Sensazioni di un golpe
Ho un’opinione, o piuttosto una sensazione, sul tentato colpo militare in Turchia, che voglio esporre benché appaia temeraria. Prima però voglio dire due cose semplici, sulla questione della democrazia e sull’ipotesi dell’autogolpe. C’è una risentita difesa del fondamento elettorale della democrazia di fronte al reale o supposto snobismo elitario che accetterebbe il popolo fino a quando il popolo non voti di testa sua. Quando un tale snobismo ci sia, peggio per lui. Ma a volte è solo supposto e confuso con la constatazione della strettoia cui la democrazia è arrivata via via che la si è ridotta alle scadenze elettorali. Questa constatazione non ha aspettato la Brexit o il colpo turco. Per ragioni di spazio rinvio agli argomenti ricapitolati in proposito dal pamphlet di David van Reybrouck, “Contro le elezioni”, 2014, tradotto in Italia da Feltrinelli e ripubblicato dal Guardian all’indomani del voto sulla Brexit. Reybrouck, e altri con lui, concludono proponendo una combinazione fra competenza e sorteggio: un’estensione di quello che avviene con la composizione dei nostri collegi d’assise, due giudici togati e sei popolari, estratti a sorte. La conclusione è dubbia, la diagnosi sulla crisi della democrazia è efficace e peraltro larghissimamente accolta, e non solo da élite schizzinose. Ben prima della crisi in cui la democrazia si è inceppata nella geopolitica globale e nella potenza dei media, le costituzioni ben temperate prevedevano correzioni al puro prevalere della maggioranza, come le maggioranze qualificate o addirittura, rispetto ad alcuni principii fondamentali, l’impossibilità di rimetterli ai voti.
La foga con cui si è ritenuto di riconsacrare la volontà popolare espressa nel voto di fronte ai suoi presunti o reali denigratori non mi pare estranea al compiacimento con cui si è accolta l’idea che Erdogan si sia fatto il golpe da solo. Idea che qualunque ragazzino griderebbe a prima vista ridicola quanto il re nudo, e che tuttavia esprime brillantemente e ingenuamente – fatta la tara alla eventuale dose di vanità dei suoi fautori – lo spirito del tempo: quella demagogia paranoica che si usa chiamare populismo, e che iscrive sulla fronte dei nostri contemporanei il motto: “A noi non ci fregano”.
E veniamo alla Turchia. Prima i partiti turchi dell’opposizione, poi, sia pure dopo le prudenti attese d’ufficio, i capi delle democrazie occidentali, hanno condannato il tentato colpo e auspicato la tenuta delle istituzioni fondate sul consenso elettorale.
Hanno fatto bene. Lo stato di diritto non è affare di un colpo di forza, com’è stato plasticamente evidente nel grande spettacolo mondiale di una moltitudine di uomini (uomini, eh) scesi nelle strade ad affrontare a mani nude le truppe. L’equivoco si è protratto nelle poche ore dello spettacolo: era rivelatore vedere la folla inveire contro i furgoni e i carri militari, alzando scarpe e corna al loro indirizzo e anche lanciandosi fisicamente loro addosso, mentre qualche commento televisivo la descriveva come una folla gioiosa e festeggiante. L’equivoco era stato probabilmente il movente degli stessi autori del colpo, confidenti nel plauso popolare, insieme al calcolo di anticipare e così sventare l’epurazione che incombeva su loro da parte di Erdogan. All’indomani della sconfitta alcune ricostruzioni hanno sottolineato l’effettiva portata del confronto fra il regime dell’AKP e lo “stato parallelo” ispirato a Fethullah Gulen – “una specie di Opus Dei”, dicono alcuni interpreti occidentali in cerca di spiegazioni esemplari. Ho solo letto un paio di libri di Gulen, sull’incompatibilità del suicidio “militante” con l’islam e sui costumi: non abbastanza per farsene un’idea, se non quella che deriva dalla preferenza del diritto femminile a tenere il capo scoperto rispetto all’obbligo femminile a coprirsi. Ma non posso ignorare il sentimento combattuto con cui ho guardato le ore del tentato colpo, e in particolare il turbamento con cui ho guardato i civili disarmati che fronteggiavano i carri armati, oscillando fra due opposti sentimenti. Questo non avrebbe potuto succedere coi giovani coraggiosi che fronteggiavano i carri armati sulla Tienanmen: là il sentimento era struggente e univoco. E là la folla inerme non poteva arrivare a tirare fuori dalle torrette dei carri i soldati spaventati e a infierire su loro. Dunque, ecco l’opinione, o piuttosto la sensazione, che voglio esporre dopo aver condiviso la convinzione che la democrazia turca debba essere salvata dalla sua società civile, e che il resto del mondo debba evitare di agire come un ulteriore ostacolo alla libertà della sua società civile, per viltà o per opportunismo.
Bene: l’Italia ha conosciuto una grande stagione di populismo cui largamente deve la propria esistenza. Lo chiamiamo Risorgimento. Il suo alfiere era Giuseppe Mazzini, profeta ispirato e piccolo cospiratore. Un suo eroe fulgido, come si diceva al tempo delle figurine risorgimentali, fu Carlo Pisacane. Pisacane era un aristocratico e un militare di carriera. Tentò il suo colpo contando (non so fino a che punto) di suscitare la ribellione popolare. Avevano preparato un documento molto più bello di quello dei militari turchi, ma con la stessa intenzione. I contadini non cambiarono le zappe in fucili da rivolgere contro il Borbone: usarono le zappe per far fuori i liberatori. Ebbero gioco facile. Il Borbone poté infierire nella repressione dal giorno dopo. Poteva anche denunciare organizzazioni segrete che tramavano contro l’ordine e la religione costituiti: il Risorgimento ne era pieno. Ecco, siccome mi ha colpito la decisione (o, se volete, l’indecisione) della maggioranza dei golpisti turchi di non fare fuoco contro la gente nel momento della inaspettata mala parata – Pisacane aveva esortato i suoi a non sparare contro il popolo “fuorviato” – ho pensato che forse in futuro ci saranno dei turchi che ricorderanno gli ufficiali e i soldati del 15 luglio come gli autori di un tentativo destinato al fallimento e perciò degno di ammirazione. “Sacrificio senza speranza di premio…” (Mazzini, Pisacane). Il Borbone non regnava grazie al suffragio universale, ma aveva un vero formidabile consenso popolare. Oggi c’è addirittura chi ne ha una gran nostalgia. La storia passa da porte girevoli: la decisione del regime turco di confinare i corpi dei partecipanti al colpo in un apposito cimitero d’infamia potrebbe un giorno diventare un santuario.
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