Viaggio nel Trumpenproletariat
Cleveland, dal nostro inviato. E’ la prima volta in vita sua che Janet Dowling non sa per chi votare. Da sempre la presidentessa del Consiglio municipale di Mentor, in Ohio, vota per il Partito repubblicano, ma questa volta è diverso: Donald Trump ha fatto saltare i punti di riferimento tradizionali. Per complicare le cose ha ingaggiato una lotta nel fango con il governatore dell’Ohio, John Kasich, popolarissimo fra i repubblicani nello stato e rispettato dai democratici. Da queste parti, nella contea di Lake, il governatore ha sconfitto Trump alle primarie con otto punti di vantaggio. Quando il grande circo della convention repubblicana è arrivato a Cleveland, nel suo stato, invece di tentare una riconciliazione ha deciso di disertare, beccandosi gli insulti dello scudiero di Trump, Paul Manafort: “E’ una vergogna per il suo stato”. Kasich ha risposto a tono. Così anche Dowling, un tempo elettrice senza dubbi, è finita nel 53 per cento degli indecisi che segnano il destino dello “swing state” per eccellenza. Non si arriva alla Casa Bianca senza passare dall’Ohio, o almeno questo suggerisce la tradizione: “Non so cosa farò, la convention repubblicana è qui dietro l’angolo ma non ci andrò, vedrò cosa succede qui e poi la settimana prossima a Philadelphia”. E’ una risposta che si sente di frequente in questa cittadina a quaranta chilometri da Cleveland, ma l’indecisione ha ragioni opposte. La classe medio-alta fedele al partito dell’Elefante guarda con sospetto, e talvolta con orrore, il candidato così distante dall’immagine trasmessa dal virtuoso governatore, ma là sotto c’è uno strato sociale sommerso, tradizionalmente democratico e sindacalizzato, che è affascinato dalle promesse protezioniste di Trump. Sono sacche di Trumpenproletariat che non hanno abbandonato le rive del lago Erie, tagliato fuori dalle rotte della globalizzazione, un angolo dell’America postindustriale che non ha l’aspetto soddisfatto e suburbano che regna nelle rappresentazioni oleografiche del ceto medio. Le villette abbandonate e le siepi incolte raccontano una storia di trascuratezza e disorientamento, lo store che vende alcolici accoglie i clienti con un motto: “Non ho deciso io di venire qui, è stata la tequila a suggerirmelo”.
Davanti a un bagel e una Pepsi, un signore sulla sessantina che non vuole dare il suo nome a un giornalista, categoria per la quale nutre un’intensa sfiducia, dice soltanto che “la protezione dei posti di lavoro degli americani è la questione fondamentale di queste elezioni”. Non è difficile vedere nelle pieghe di questi sobborghi i segni di quello che viene chiamato “white trash”, termine che la storica Nancy Isenberg ha sdoganato in ambito culturale, usandolo come titolo di uno dei libri fondamentali per afferrare l’appeal del trumpismo nell’America del 2016. Mentor ha poco meno di cinquantamila abitanti – per il 93 per cento bianchi – e nei decenni ha dovuto affrontare il doloroso (e irrisolto) passaggio dalla manifattura al terziario. E’ un luogo simbolico, uno spaccato della rust belt bianca accomunato ad altre città dell’hinterland di Cleveland come Medina, Eastlake, Brunswick, Parma, Painesville: gli strateghi elettorali non dormono la notte pensando a questi sobborghi indecisi che gli attivisti dei partiti conoscono casa per casa. Quando la candidatura di Trump ha preso corpo, molti si sono domandati se esistesse un fenomeno simile a quello dei “Reagan Democrat”, i democratici della working class che cercavano protezione sotto Reagan. Il sociologo Stanley Greenberg li aveva individuati studiando la contea di Macomb, in Michigan; oggi i “Trump Democrat” potrebbero essere dalle parti di Mentor, nello stato dove si eleggono i presidenti, a due passi da una convention disertata da un’ampia fetta dell’establishment repubblicano.