Donald Trump (foto LaPresse)

Il revival di Cleveland

L'antirottamatore Trump dissoterra la vecchia destra tradizionale

Una convention dominata dal più sgargiante degli outsider in cui un terzo del partito non si presenta, una fronda imbestialita forza una votazione irrituale, un senatore sale sul palco e si rifiuta di dare l’endorsement al candidato, gli scandali s’inseguono, la gestio

Cleveland, dal nostro inviato. Una convention dominata dal più sgargiante degli outsider in cui un terzo del partito non si presenta, una fronda imbestialita forza una votazione irrituale, un senatore sale sul palco e si rifiuta di dare l’endorsement al candidato, gli scandali s’inseguono, la gestione dell’evento sfugge di mano e pure il segretario della Nato entra a gamba tesa nella disputa può far pensare a una rivoluzione, a un grandioso processo di rottamazione politica. Si abbatte un sistema vecchio per crearne uno nuovo. Gli ultimi decenni della politica americana sono innervati di nuovismo: la “New Right” ha sostituito la destra tradizionale, i neoconservatori hanno abbattuto i paleoconservatori; a sinistra qualcuno ha adottato il termine “New New Left” per descrivere la frangia di Bernie Sanders e compagnia, perché il semplice “New” era già occupato.  La strada della storia sembrava a senso unico, e anche il “change” di Obama andava in quella direzione. Ma quello che sta succedendo nel Partito repubblicano di Donald Trump non è un rovesciamento, è piuttosto una restaurazione.

 

E’ un ritorno alla tradizione conservatrice della “Old Right” che sembrava perduta mentre invece rivive in un candidato che la interpreta visceralmente.Trump ha sempre detto che ha imparato tutto ciò che sa “per osmosi”, non attraverso l’apprendimento teoretico o l’assimilazione di principi astratti. Anche il suo ruolo di restauratore della vecchia destra, quella che prima della Seconda guerra mondiale predicava isolazionismo, dazi doganali, “law and order” e temeva la diffusione di ideologie sopranazionali, è largamente inconsapevole, e durante la convention il clan di Trump non ha nemmeno tentato di articolare a parole un profilo ideologico coerente. In questi mesi ha però instillato il nostalgico spirito della restaurazione con la sua solita predicazione-provocazione che si muove nel piano anticartesiano dell’oscuro e dell’indistinto. Qualunque cosa sia questo cambiamento, il popolo l’ha capito meglio dell’élite. Grattando via la superficie, del cerimoniale di Cleveland rimangono simboli e parole che parlano di un ritorno a quella tradizione obliata. Quando Trump minaccia di stracciare l’articolo cinque dello statuto della Nato non fa altro che appellarsi all’idea per cui “lo stato-nazione è il vero fondamento della felicità e dell’armonia”, enunciata mesi fa. I precetti antiglobalisti e una profonda critica alle pretese universaliste dell’America – in una parola: l’eccezionalismo – sono penetrati nel sentire del popolo trumpiano, ma soltanto perché erano già impressi in qualche filamento dimenticato del suo dna. Lui ha dissotterrato, non ha abbattuto.

 

La ribellione di Ted Cruz illustra la distanza fra le due idee della destra che si stanno sfidando a morte in questa tornata. Ieri il senatore ha incontrato i delegati del suo stato, il Texas, per spiegare la scelta di smarcarsi da Trump in nome della coscienza. L’immagine che Cruz vuole dare è quella dello strenuo difensore dei principi conservatori contro l’usurpatore ideologico del partito, “ma anche Trump fa leva su una precisa tradizione conservatrice”, spiega al Foglio Sam Tanenhaus, intellettuale e storico dei conservatori americani che per tanti anni ha guidato la Book Review del New York Times. “E’ incredibile che ora Cruz, odiato da tutto l’establishment repubblicano, venga preso come il suo guardiano ideologico, ma è un fatto significativo: pur di difendere la versione della destra che si è affermata dal secondo dopoguerra in poi sono pronti ad appoggiare un senatore con cui nessuno voleva nemmeno parlare”.

 

Tanenhaus, biografo “in divenire” di quello che è considerato il padre della destra contemporanea, William Buckley, fa notare che l’idolo di quelli che ora non possono sopportare Trump “era a sua volta in qualche modo un figlio della Old Right, esposto com’era alla cultura del sud. Certo, era a favore della Nato e d’impostazione internazionalista, ma anche lui era in parte illuminato da una tradizione che si rifà a personaggi come Robert Taft e William McKinley. Trovo notevole che un personaggio come Karl Rove, che è uno storico di McKinley, non voglia rendersi conto che il tipo di ideologia repubblicana che Trump esprime era già ben presente prima del partito di Reagan e dei Bush ui lui ha aderito”. La tradizione della vecchia destra è stata tramandata, con molte interpolazioni, da intellettuali come Russell Kirk e Murray Rothbard, che hanno poi infuso i precetti in una generazione di teorici e polemisti, da Samuel Francis a Pat Buchanan, diffusi in pubblicazioni minoritarie come “Chronicles” e “The American Conservative”, e in modo rocambolesco è piombata addosso a uno sboccato tycoon con il ciuffo rossiccio cresciuto in un brodo ideologico di nostalgia e nazionalismo: “A Cleveland sta andando in scena l’atto finale di questa opera di restaurazione cui il partito ha tentato invano di ribellarsi per un anno intero, prima ridicolizzandola poi battendosi in modo convulso, come fa Cruz adesso. Sono tutti terrorizzati dall’idea di rimanere sepolti sotto questo revival della vecchia destra”.

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