Trump e la corsa alla Casa Bianca per allontanare l'apocalissi dall'America
Dopo le giornate composte del grigio satinato, alla fine la scenografia della Quicken Loans Arena s’è tinta d’oro per lui, Donald Trump, arrivato sul palco di Cleveland per accettare la nomination dopo aver superato ostacoli inaspettati e aver sconfitto avversari risorti dalle ceneri delle primarie più sghembe che la storia recente ricordi.
Con la sua tonalità abituale e la solita teoria di bandiere americane alle spalle, Trump s’è avventurato in una cavalcata finale colma di pathos, ma totalmente priva di gioia, come se invece di liberarsi da una parte della zavorra il candidato avesse riversato nel discorso d’incoronazione tutta la rabbia nervosa accumulata lungo la strada. Il vecchio tormentone del “win”, della vittoria su tutto e tutti, non ha attecchito dalle parti di Cleveland. E’ stato a suo modo un reality show, ma ha catturato quella fase narrativa in cui i concorrenti litigano, l’aria si fa irrespirabile e la regia fa crescere la musica drammatica. Ci aveva provato Ivanka, la figlia prediletta, a tentare la definitiva opera di umanizzazione del padre, per sgrossare gli spigoli autoritari, dopo che gli altri membri della famiglia avevano diligentemente fatto la loro parte durante la settimana. Così Trump dev’essersi sentito libero di filare la sua tela programmatica sul baratro della paura, facendo appello ai sentimenti più oscuri del suo elettorato, toccando soltanto in rarissimi casi le leve della speranza e del desiderio. Lui stesso lo ha definito un “manifesto americano per i nostri tempi tribolati”, un piano “muscolare e deciso dall’inizio alla fine”.
Donald Trump con la figlia Ivanka (foto LaPresse)
Ha dipinto uno scenario apocalittico segnato dalla violenza, dagli omicidi dei poliziotti, dai crimini degli immigrati clandestini, dal terrorismo, patologie della vita contemporanea che richiedono l’intervento di un presidente “law and order”, un incrocio fra il senatore McCarthy e Batman. Law and order: ha ripetuto quattro volte la formula che in queste ultime settimane è comparsa sempre più spesso, e ogni volta il pubblico si è prodotto in un boato più convinto e rauco.
Con un impiego furbesco di dati statistici corretti ha dipinto un’America dove il disordine e l’illegalità dilagano, omettendo di ricordare che il recente aumento del tasso di omicidi in alcune grandi città americane va messo nel contesto generale di una drastica diminuzione della violenza. La strage di Orlando ha avuto un ruolo speciale nel racconto, permettendo a Trump di manifestare solidarietà alla “comunità Lgbt” vittima di una “orrenda ideologia straniera”. Non ha mancato di notare che questo garrire di simboliche bandiere arcobaleno è inusuale in un consesso repubblicano.
Poco prima Peter Thiel aveva dichiarato sul palco: “Sono fiero di essere gay, sono fiero di essere repubblicano”. Tony Perkins, capo del Family Research Council e anche lui fra gli speaker di giornata, si è occupato nel suo breve intervento di spiegare perché non si dovrebbe eliminare la parola Dio dalle banconote e dal Pledge of Allegiance. Nemmeno una parola sulla famiglia. Sicurezza, protezione, dazi difensivi, chiusura delle frontiere per chi viene da paesi a rischio terrorismo, inasprimento delle pene per i criminali: è questo che Trump ha offerto al “forgotten man”, l’uomo dimenticato da un’élite sfruttatrice e sconnessa dalla realtà del popolo, dominata dagli “special interest” e dall’odiata ideologia globalista.
“L’americanismo, non il globalismo sarà il nostro credo”, ha detto, passando alla politica estera, dove ha riproposto il suo realismo post-nixoniano fatto di America First e di “trattati individuali da discutere con gli altri paesi individualmente”. Ogni trattato internazionale e organizzazione sopranazionale ha ricevuto il trattamento solito, dalla Nato al Nafta. Con la condanna fermissima dei “quindici anni di guerre in medio oriente” ha sepolto l’era conservatrice dei Bush e, più in generale, dell’America portatrice di ideali universali. I “barbari dello Stato islamico” vanno sbaragliati all’istante, ma non con le strategie fallimentari di Obama e Hillary, gli antieroi di Bengasi, delle red line in Siria, dell’Iran che corre verso la bomba nucleare.
A parte gli occasionali cori “U-S-A! U-S-A!”, il pubblico ha intonato due motivi: “Build the wall” e “lock her up”, il primo un inno al muro sul confine messicano che è in cima alle promesse di Trump, il secondo la richiesta di mettere in manette Hillary per il modo in cui ha gestito le famose email. Trump s’è allargato un po’ troppo nel descrivere il caso (ha detto in sostanza che Hillary ha commesso un reato federale, l’Fbi non la pensa così, ma il sottotesto trumpiano è che il sistema è viziato all’origine). Perfino il Trump nella sua versione più nera ha smorzato il canto della folla invasata che chiede la ghigliottina per la Maria Antonietta democratica: “Battiamola a novembre”. Efficace il rovesciamento dello slogan dell’avversario. Il femminile “I’m with her” diventa nella narrazione di Trump “I’m with you”. Sono con voi, uomini e donne dimenticati e senza voce, dice Trump; sono con voi che siete sotto il tallone “un sistema che conosco meglio di chiunque altro, e per questo sono l’unico che può cambiarlo”. “Sono con voi, combatterò per voi e vincerò per voi”. Applausi, patriottica pioggia di palloncini e poi tutti a casa, sorridendo con moderazione.