A proposito di Turchia. Cari Lerner e Boldrini, com'era quella barzelletta sull'islam moderato?
Soner Cagaptay è uno scienziato della politica con radici turche e americane, lavora come senior fellow al Washington Institute for Near East Policy, e qualche giorno fa ha scritto per il Wall Street Journal un articolo semplicemente perfetto su un aspetto cruciale legato al delicato destino della Turchia. Il senso del ragionamento è chiaro e lineare e suona più o meno così e non farà piacere all’internazionale dei Peter Pan dell’islamismo che vede da sempre in Turchia e non solo un modello gustoso e generoso di magnifico Islam moderato. In sintesi: cari amici, quando cominceremo a capire che nella Turchia post colpo di Stato Recep Tayyip Erdogan sta semplicemente portando alle estreme conseguenze quella che rischia di essere una rivoluzione islamica del suo paese? “La Turchia – ha scritto Cagaptay – è a un momento epocale della sua storia dopo il fallimento del colpo di Stato, ma come in tutti i momenti epocali adesso Ankara è davanti a un dilemma. Il presidente ha ottenuto nuova legittimità e guadagnato un nuovo alleato, l’impeto religioso nelle strade, e adesso potrà usare questo impeto per ottenere il potere esecutivo a cui anela oppure incoraggiare le forze religiose a prendere il controllo del paese, incoronando se stesso come leader islamico. Nella notte del colpo di Stato, mentre il coup era in corso, Erdogan – continua Cagaptay – ha fatto appello al sentimento religioso nel paese, spingendo i suoi sostenitori alla reazione. Su suo ordine, all’una e un quarto di notte i richiami alla preghiera hanno risuonato nelle 80 mila moschee della Turchia”.
Il tentativo di Erdogan di spingere più in là la notte della Turchia, archiviando il laicismo di Atatürk, proietta il paese verso il suo momento 1979 e può permettere alla guida suprema della politica turca di realizzare una rivoluzione islamica non troppo diversa da quella messa in campo proprio nel 1979 in Iran. Nella notte del golpe in molti hanno notato che il governo turco, sullo stile dello Stato islamico, ha diffuso immagini di un soldato decapitato ma gli stessi che oggi si meravigliano della trasformazione della Turchia, delle purghe di Erdogan, della archiviazione del secolarismo, sono gli stessi che prima del golpe credevano che la deriva integralista di Erdogan fosse un fenomeno tutto sommato gestibile e accettabile, fingendo di non vedere le 17 mila moschee edificate nel giro di pochi anni (“Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati”), le donne turche nuovamente coperte con il velo, i muezzin nella vecchia basilica di Santa Sofia trasformata in passato da Atatürk in un simbolo della laicità del paese. Cagaptay conclude il suo buon ragionamento toccando la carne viva della grande contraddizione che vive all’interno della definizione di “islam moderato”, notando che negli ultimi tempi l’Occidente ha scelto di investire forte su due paesi come la Turchia e come l’Iran in cui il processo di islamizzazione ha compresso e compromesso le libertà individuali e in cui le ambiguità con il terrorismo di matrice islamista hanno contribuito ad alimentare su vari fronti il terrorismo jihadista.
Il problema è evidente, dunque, e riguarda uno dei grandi temi che andrà messo a fuoco anche per capire che mondo lascia Obama dopo otto anni alla Casa Bianca. È davvero un rischio accettabile lasciare il medio oriente nelle mani di un paese (l’Iran) che teorizza la necessaria cancellazione dalle mappe geografiche dell’unica democrazia matura della zona, ovvero Israele? È davvero un rischio accettabile non muovere un dito di fronte a un paese (come la Turchia) che potrebbe convertire la reazione religiosa al colpo di Stato in una controrivoluzione islamica, ponendo fine allo status della Turchia come democrazia secolare? È davvero un rischio accettabile non porsi nemmeno un interrogativo sull’opportunità che il paese guidato da Erdogan sia “indispensabile” per la Nato a prescindere dal suo progressivo “fanatismo religioso”, come lo ha saggiamente definito su queste colonne Giorgio Napolitano? L’impotenza dell’Europa e delle società occidentali di fronte alle continue rivoluzioni islamiche dei due grandi pivot del medio oriente (l’Iran sciita, la Turchia sunnita) la si spiega non solo con la condizione di smarrimento vissuta dalle nostre società nell’epoca del disimpegno americano ma anche attraverso un’altra lente di ingrandimento (distorta) che è la stessa che non ci consente di mettere a fuoco il dramma del terrorismo jihadista. E quando ci copriamo gli occhi per non vedere la rivoluzione turca, quando ci copriamo gli occhi per non vedere il totalitarismo iraniano, quando ci copriamo gli occhi per non vedere la sharia applicata da stati amici come il Pakistan e la Turchia, quando ci copriamo gli occhi per non vedere la vera matrice del terrorismo che da mesi colpisce la libertà dell’Occidente, facciamo sempre la stessa cosa e ignoriamo sempre lo stesso problema, fischiettando spensierati per distrarci un po’ e non pensare all’unica parola che andrebbe messa a fuoco quando si parla di Turchia, di Iran e di nuovi totalitarismi: l’islamismo.
L’uomo occidentale – ha detto Rémi Brague, tra i più grandi medievisti viventi, professore emerito alla Sorbona e cattedra “Romano Guardini” a Monaco di Baviera, in un testo raccolto sul Foglio dal nostro Matteo Matzuzzi – è incapace di reagire perché non sa chiamare le cose con il loro nome, non sa definire il problema, non riesce a vederlo come dovrebbe e come potrebbe e non capisce che, per l’islamista, “la violenza è solo un mezzo che, come tale, prevede uno scopo: l’implementazione, a livello mondiale, di una legislazione che altro non è che una forma o l’altra di sharia, capace di decidere sulla moralità individuale, la famiglia, l’economia. Forse, anche per governare il sistema politico”. Caro Gad Lerner e cara Laura Boldrini, scusate, com’era la barzelletta sull’Islam moderato?