I democratici fanno lo show perfetto che nasconde le fratture più profonde
Philadelphia, dal nostro inviato. La trama della convention democratica, così com’è presentata dal partito democratico stesso, è questa: due correnti competitive si scontrano, dialogano, negoziano, se necessario urlano, e alla fine l’establishment clintonian-obamiano riunisce nel suo caldo abbraccio le anime della sinistra, mentre Paul Simon intona una canzone ecumenica. La giornata di lunedì, iniziata in modo turbolento e finita sotto le insegne dell’unità democratica, è la rappresentazione perfetta di un partito intenzionato a comunicare che il dissenso è superabile e le differenze superficiali. Ma a guardar bene la spaccatura è più profonda, e a Philadelphia si vede. Sugli spalti del Wells Fargo Center e per le strade della città va in scena il conflitto fra due visioni del mondo, non soltanto fra due brand dello stesso prodotto ideologico. Michelle Obama ha emozionato la platea con un discorso trascinante e intimo, costruito attorno alla sua esperienza di madre di due ragazze afroamericane che hanno vissuto gli anni decisivi della formazione alla Casa Bianca, il palazzo del potere costruito dagli schiavi. La first lady ha intonato una storia di progresso e speranza, la sua storia, e con questa fiaccola ha illuminato la dimensione del futuro, da affidare alla persona grazie alla quale le giovani Sasha e Malia “danno per scontato che possa essere eletta una donna alla Casa Bianca”. Ha elogiato Hillary perché quando è stata sconfitta non si è persa d’animo e non si è arrabbiata, che liberamente tradotto significa: lei non ha costruito un movimento di giovani arrabbiati che è sceso in piazza contro l’elezione di mio marito, mettendone in discussione principi e legittimità.
Non ha fatto le barricate, non ha portato alla convention 5.500 manifestanti con le bandiere rosse. Elizabeth Warren e Bernie Sanders non hanno parlato dei progressi del presente e delle promesse che il futuro ha in serbo per l’America. Hanno parlato, come al solito, dei ricchi che opprimono i poveri, dell’ “oligarchia” che domina il sistema “rigged” a favore dell’1 per cento, degli stipendi che non crescono da quarant’anni e della classe (post) operaia che con il minimo sindacale vive sotto la soglia di povertà; mettono in guardia dai “corporate media” e promettono un’apocalisse fatta di povertà, ingiustizie e violenza se non provvederà al più presto a mettere in atto la famosa “rivoluzione politica”. La linea di rottura è “fra i democratici che credono che l’America abbia fatto una svolta sotto Barack Obama e i democratici che credono che le cose siano peggiorate”, come scrive Peter Beinart sull’Atlantic. Il grande progresso razziale che Michelle ha di nuovo narrato a Philadelphia non arriva a toccare le corde più profonde del cuori sandersiani, per la stragrande maggioranza bianchi e millennial: “Apprezzano l’elezione di un presidente nero, ma non è la questione centrale nella loro comprensione del momento storico che l’America sta vivendo. L’oligarchia è la questione centrale”.
L’impeto rivoluzionario non ha pazienza per i processi storici graduali, suscitati e nutriti con prudenza, che invece sono l’orizzonte dell’azione di Hillary e Obama. Qualcuno a un certo punto doveva dire agli ultrà di “Bernie or bust”, quelli che hanno capito bene il profondo disaccordo fra i due progetti ideologici riuniti sotto lo stesso ombrello democratico, che il loro tentativo intransigente è ridicolo, e poteva farlo soltanto una comica come Sarah Silverman. Il risveglio dopo la prima notte di riconciliazione è stato contrassegnato da un fiume di delegati di Bernie che protestano e nel loro network interno annunciano di aver trovato un nome alternativo per il posto di candidato vicepresidente. Manovre vane, eppure significative. Un grande contributo alle versioni più concilianti di questa convention democratica lo fornisce l’immensa capacità di scena del partito democratico. La cerimonia-show messa in piedi a Philadelphia è avanti anni luce all’abborracciata giustapposizione di politici di seconda fascia e cover band vista sul palco repubblicano di Cleveland. Le celebrity democratiche aiutano: avere sul palco Alicia Keys, Meryl Streep, Paul Simon, Demi Lovato, Eva Longoria e una lista che non finisce più di idoli globali favorisce un clima cool da notte degli Oscar, ma si tratta anche della qualità della produzione, che si nota dall’allestimento del palco fino ai cartelli distribuiti al pubblico. Per ogni ospite il palazzetto brandisce un cartello dello stesso colore con uno slogan specifico, l’arena si muove all’unisono coordinata da migliaia di volontari più efficaci nell’allestimento dello spettacolo che nella gestione della logistica, i tempi del palco sono perfetti, organizzati per creare un perfetto equilibrio di emozioni e concetti politici. Il tormentone “we will rise” intonato dal senatore Cory Booker, come al solito ricolmo d’adrenalina, ha polverizzato l’espediente retorico analogo messo in scena da Scott Walker a Cleveland, quando il pubblico ripeteva con scarsa convinzione il messaggio “America deserves better”. Uno parla di risurrezione, l’altro di risentimento: una bella differenza. A fare da collante fra i due tronconi democratici c’è una sostanziale dose di antitrumpismo, che aiuta a dimenticare i dissapori e a trasferire altrove le emozioni negative. Potrebbero sembrare dettagli scenografici, ma la convention è un evento cerimoniale in un paese edificato sulle liturgie civili, dove non sono importanti soltanto le idee e le parole ma anche il modo in cui vengono dette, riportate e messe in scena. Una macchina cinematografica come quella democratica è un asset strategico importante per non finire triturati nel racconto delle divisioni ideologiche.