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Tra contestazioni e lacrime, il popolo di Sanders si arrende

Il Partito democratico schiera un parterre che il Gop non è riuscito a mettere insieme neppure per l’ultimo giorno di convention. Dopo l’esordio fatto di fischi e slogan forcaioli, gli irriducibili anti clintoniani si allineano.

La prima giornata della convention democratica si è aperta con una polifonia dissonante e fuori tempo e si è chiusa con una cavalcata delle valchirie, dove anche gli strumentisti più riottosi hanno tenuto bordone.

 

La mattinata, d’umidità equatoriale, aveva portato un’aria da resa dei conti. Il popolo di Bernie Sanders in pieno clima da manifestazione, il capo del partito, Debbie Wasserman Schultz, cacciata nell’ignominia e con tanto di scuse a Bernie per le email imbarazzanti che svelavano inclinazioni clintoniane; la leadership democratica non aveva dato l’impressione di avere la situazione sotto controllo. Gli ultrà di Bernie, raccolti in separata sede, avevano fischiato e ululato di fronte alla richiesta, esplicita e senza tentennamenti, di sostenere Hillary Clinton. Il senatore sconfitto aveva rincarato la dose con un sms a tutti i capi delle delegazioni, chiedendo “come favore personale” di non protestare durante i lavori, ma il messaggio non è arrivato in fondo alla catena ed è bastato che nell’invocazione d’apertura della sessione plenaria si citasse soltanto Hillary per scatenare i “buuu!”, i cori “Bernie! Bernie!”, i cartelli contro l’area di libero scambio nel Pacifico e tutto l’armamentario del sandersiano provetto. La convention era iniziata da un quarto d’ora e già il battibecco dominava un’arena divisa in tre porzioni: una maggioranza clintoniana convinta ma senza l’energia dei tempi che furono, una minoranza sandersiana genere “Bernie or bust” vociante e arrabbiata e infine un’altra fetta di supporter di Bernie che avevano accettato il dettato del loro idolo.

 

Con l’alternarsi di interventi sul palco tutti orientati alla riunificazione, gli intermezzi musicali ad alto tasso emotivo (Paul Simon ha cantato la didascalica “Bridge Over Troubled Water”) le testimonianza in stile Demi Lovato, e pure un violento temporale che fuori dal Wells Fargo Center ha spento i focolai di protesta, il crescendo emotivo e forse anche la presa di coscienza che le istanze di Bernie sono state in parte recepite dalla candidata, il dissenso s’è smorzato. Decisiva, in questo senso, anche l’insistenza nell’usare la battaglia contro Donald Trump come collante democratico; l’avversario repubblicano è comparso continuamente, forse anche un po’ troppo per un partito che ha criticato piccato gli eccessi delle campagne negative altrui. Dagli abiti Made in Mexico all’ipotesi spaventosa di dargli in mano i codici delle testate nucleari, molti dei punti di aggressione sono stati già sfruttati. Un piccolo gruppo di irriducibili di Sanders, all’interno della composita delegazione della California, ha continuato per tutta la serata a intonare canti sandersiani, ma era un rumore di fondo più che un reale disturbo. La comica Sarah Silverman, sostenitrice di Bernie durante le primarie, ha fatto una complicata opera di rappacificazione, sfruttando il registro umoristico per dire cose che in altre formule sarebbero state difficili da comunicare. Punch line: “Alla gente ‘Bernie or bust’: siete ridicoli!”.

 

Così è stata lanciata la prima serata, dove è intervenuto un parterre di un calibro che il Partito repubblicano non è riuscito ad eguagliare nemmeno nella sua ultima serata di convention. Michelle Obama, Elizabeth Warren e Bernie Sanders sono intervenuti, anticipati dal senatore Cory Booker, politico di abilità non fuori dal comune ma solido comunicatore, perfetto quando si tratta di infiammare un’adunata.

 


Bernie Sanders sul palco di Philadelphia (foto LaPresse)


 

Bernie è arrivato sul palco introdotto da uno spot elettorale che è rimasto nel cuore dei suoi, una sequenza di immagini della vita americana senza parole, accompagnate soltanto dalla canzone “America” di Simon: per circa otto minuti gli applausi scroscianti gli hanno impedito di iniziare a parlare. Non ha fatto nulla di diverso del solito stump speech se non per il finale: “Qualunque osservatore obiettivo concluderà che, basandosi sulle sue idee e la sua leadership, Hillary deve diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti”. Elizabeth Warren, alleata della sinistra antisistema, si è mossa come al solito sullo stesso registro, mentre è toccato alla first lady fare il discorso sula speranza e sul progresso, ricordando che in questo mondo così oscuro ma anche così pieno di opportunità, le sue figlie possono giocare nel giardino della Casa Bianca, che è stata costruita dagli schiavi. Ora è grazie al constante lavorìo di Hillary per raggiungere e rompere l’ennesimo “glass ceiling” che Sasha e Malia “possono dare per scontato che ci potrà essere una dona alla Casa Bianca”.

 

Il contrasto profondo fra il tipo di messaggio di Michelle e quello di Bernie e Warren è evidente: la storia di speranza e progresso del “più grande paese della terra” va in affanno quando incontra quella di un paese ingiusto, diseguale, “rigged”, un luogo di sfruttamento che deve essere cambiato nelle sue strutture più con una rivoluzione politica, perché la volontà riformatrice non basta. C’è un ampio fossato che separa la posizione espressa da Michelle e quella di Sanders e Warren, ma nel contesto della performance della prima giornata le divisioni si sono progressivamente attenuate. I delegati di Bernie hanno chiuso l’esordio in lacrime, eppure allineati.