Così l'affinità fra Trump e Putin diventa un gran complotto globale
Philadelphia, dal nostro inviato. “Non ho mai incontrato Putin, non ci ho mai parlato, non so chi sia. Non ho nulla a che fare con la Russia”. Con un’iperbole, infine, Donald Trump ha sfidato gli hacker russi a recuperare le 33 mila email che Hillary Clinton ha fatto sparire dai suoi server privati. La campagna di Hillary non l’ha presa bene: “E’ la prima volta che un candidato presidenziale incoraggia lo spionaggio di un governo straniero contro il suo oppositore politico”, ha detto il consigliere Jake Sullivan. Nella solita conferenza stampa irrituale e surreale, da un albergo della Florida mentre a Philadelphia va in scena la convention democratica, Trump si è scrollato di dosso le accuse di essere in combutta con la Russia di Putin per far naufragareHillary Clinton. La vicenda dei legami fra Trump e Putin tiene banco da quando Wikileaks ha pubblicato 20 mila email trafugate dai server del Partito democratico, le quali dimostrano che la leaderhsip lavorava per la candidatura di Hillary. Teste sono saltate, scuse al danneggiato Bernie Sanders sono state diramate. L’intelligence americana crede con un “alto livello di confidenza” che l’attacco informatico provenga dalla Russia, nozione condivisa dalla campagna di Hillary e, con qualche cautela in più, da Barack Obama. Gli stessi esperti notano però che stabilire la provenienza di un attacco – cosa già difficile da fare con certezza – non dimostra se si tratta di un’imboscata pianificata per lo scopo specifico di influenzare le elezioni oppure è parte di una manovra cyberspionistica routinaria, attività che tutti i paesi svolgono regolarmente.
Potrebbe essere che un pesce particolarmente grosso sia rimasto impigliato nelle reti a strascico gettate dai servizi russi. Altri esperti di sicurezza, come Jack Goldsmith della scuola di legge di Harvard, notano che stabilire la natura di un’aggressione del genere è difficile, e tanti paesi regolarmente cercano di influenzare le elezioni altrui. Julian Assange ha confermato che la tempistica della pubblicazione delle email è stata dettata dalla volontà di danneggiare Hillary, ma quando gli hanno chiesto se sosteneva Trump lui ha risposto che “è come scegliere fra il colera e la gonorrea”, il che non ha l’aria di un endorsement. Questo allinearsi degli astri sull’asse Trump-Putin ha offerto l’occasione perfetta ai critici dell’autoritarismo nazionalista del tycoon. Il primo a buttarsi sulla preda è stato Franklin Foer, che in passato aveva indagato sui legami del manager della campagna elettorale, Paul Manafort, con Viktor Yanukovich, per il quale aveva lavorato come consulente.
Se ci si aggiunge l’ovvia convergenza ideologica del presidente russo con un candidato che giudica la Nato “obsoleta” e promette affari e dialogo in luogo di sanzioni e logica dei blocchi, il salto di qualità della relazione fra i due è presto fatto: Trump è diventato così “il burattino di Putin” che ha un “piano per distruggere l’occidente”, vittima di uno scandalo che è “peggio del Watergate” (Foer, Slate), il “candidato del Cremlino” (Michael Crowley, Politico), il “Siberian candidate” (Paul Krugman, New York Times). Ma una cosa è osservare affinità e interessi comuni, un’altra è sostenere che Putin sta dettando i passi elettorali a Trump. “C’è molto di più sulla relazione fra Trump e la Russia che ancora non è uscito”, ha detto John Podesta, arrivando a un passo dal sostenere che il candidato del partito di Lincoln lavora per il Cremlino. Di fronte all’attacco coordinato, perfino la New York Review of Books, irreprensibile nel suo antiputinismo e antitrumpismo, ha invitato a darsi una calmata sulle inferenze e i teoremi: “L’idea che Trump è come Putin o è il suo agente è profondamente falsa”.