Obama attira la destra anti Trump indossando il mantello di Reagan
Philadelphia, dal nostro inviato. La conversazione terrorizzata fra i conservatori è iniziata in tempo reale, su Twitter, quando hanno capito che sul palco della convention Barack Obama stava indossando il mantello di Ronald Reagan. Non soltanto quello di Roosevelt o di Clinton, ma gli abiti scintillanti dell’icona del conservatorismo usurpata da un candidato, Donald Trump, che pesca da un’altra, più antica e oscura fonte della destra americana. “Eccezionalismo americano e grandezza, la splendente città sulla collina, i documenti fondativi ecc., stanno cercando di prendere tutta la nostra roba”, ha scritto Rich Lowry, direttore di quella National Review che dai tempi di William Buckley ha fissato i paletti ideologici che poi Reagan ha tradotto in un progetto politico vincente. La risposta di Ramesh Ponnuru, altro conservatore disgustato da Trump, è rassegnata: “Il Gop l’ha ceduta”, ha svenduto reliquie e testi sacri della tradizione conservatrice più luminosa e ottimista. E mercoledì sera Obama ha approfittato della stagione dei saldi ideologici per mettere le mani su un asset elettorale importante per Hillary Clinton.
Il presidente ha detto che quello in corso “non è il solito dibattito fra destra e sinistra” ma è una scelta più profonda e radicale “su chi siamo come popolo” e se “siamo fedeli a questo grande esperimento di autogoverno”. Per dare corpo al superamento delle distinzioni ha tirato fuori ancora una volta la storia della famiglia di sua madre, genia di agricoltori scozzesi-irlandesi del Kansas che per la maggior parte votava per i repubblicani. Ricordando che è il “partito di Lincoln”, Obama ha sottolineato ciò che accomuna i due grandi schieramenti politici, invece di rimanere intrappolato in ciò che li divide. Questa impostazione ha due implicazioni, una strettamente elettorale, l’altra più profonda, legata ai fondamenti ideologici dell’America. La prima corrisponde al fatto che Hillary cerca voti al centro e nella destra antitrumpiana, quella che, al termine di una penosa veglia, la settimana scorsa a Cleveland ha celebrato il funerale del conservatorismo di Reagan e dei Bush. “Se qualcuno di voi sta cercando il partito di Lincoln, abbiamo una casa per voi qui nel Partito democratico”, ha cinguettato il candidato alla vicepresidenza, Tim Kaine. La seconda implicazione riguarda il comune piedistallo liberale che sorregge i due partiti principali dal secondo Dopoguerra in poi.
Già negli anni Cinquanta questa comunanza di visione sotto le declinazioni politiche divergenti era rilevabile, tanto che il grande critico Lionel Trilling proclamava: “Il liberalismo non è soltanto l’ideologia dominante in America, è l’unica ideologia”. Negli stessi anni l’intellettuale Louis Hartz parlava di una “articolazione nazionale di Locke”, mentre Daniel Boorstin, storico ed esegeta della modernità americana, sanciva l’inutilità di formare una teoria politica specifica per inquadrare l’America, già determinata da un’idea di fondo. I comuni precetti liberali sono più profondi delle distinzioni fra democratici e repubblicani. Quando mercoledì Leon Panetta, ex segretario della Difesa e capo della Cia, ha detto che Hillary sconfiggerà l’Isis, esaltando un approccio internazionalista e muscolare alla politica estera, i sostenitori di Bernie Sanders hanno intonato il coro “no more war!”, fedeli alle premesse socialdemocratiche e marxisteggianti del discorso sandersiano. Ma non è quella la nota dominante della tradizione democratica americana. Ciò che domina è quella profonda comunanza che ha permesso a Obama di appropriarsi delle parole d’ordine di Reagan, lasciate sguarnite da un partito fuggito altrove.