Un viaggio tra le vie di Sirte
Il linguaggio delle esplosioni, i camion della sera carichi di munizioni, la domanda delle milizie libiche che combattono lo Stato islamico: perché dobbiamo fare tutto da soli? “Abbiamo bisogno di armi, la comunità internazionale deve togliere l’embargo, se vuole che schiacciamo Is al posto vostro”.
Sirte, dal nostro inviato. Per due anni la Libia è stata la grande storia di successo dello Stato islamico, tanto che alla fine del 2015 gli inviati del New York Times avevano pubblicato un articolo esteso e pieno di dettagli in cui chiedevano: non è che il paese africano è la “fallback option” dello Stato islamico, ovvero che se le cose si mettono male in Siria e in Iraq lo Stato islamico ha già pronto qui un territorio B da dove ripartire, con capitale Sirte? Questo timore ha scatenato una sequenza infinita di speculazioni e di mezze notizie – con picco a marzo – su un imminente intervento dell’occidente in Libia, un bis delle operazioni del 2011 contro il colonnello Muammar Gheddafi che questa volta avrebbe visto l’Italia al comando. Invece negli ultimi due mesi la storia di successo è stata distrutta dagli eventi: il gruppo libico (ma formato da tantissimi stranieri soprattutto di altri paesi africani) è stato costretto ad abbandonare le centinaia di chilometri di costa che controllava, ha ripiegato in fretta e ora è intrappolato con meno di cinquecento uomini dentro alcuni distretti di Sirte, assediato su ogni lato dalle katiba – che sono le brigate di combattenti di Misurata. Il contro-trionfo però si è arrestato qui.
Si pensava che lo Stato islamico avrebbe opposto una resistenza minima dentro Sirte per guadagnare tempo e che il grosso dei combattenti si sarebbe disperso, magari in fuga verso il sud, verso la zona del Fezzan. “Live to fight another day”, consiglia un modo di dire inglese, sopravvivi oggi così potrai tornare a combattere un altro giorno. Sirte invece sta cedendo casa dopo casa, anzi stanza dopo stanza, come se i fanatici dentro avessero deciso di comune accordo che se in ogni caso sono destinati alla morte allora tanto vale infliggere danni rovinosi alla campagna di eliminazione definitiva montata contro di loro. In Iraq la città di Falluja, che gode nelle leggende guerrigliere dello status di maqabr al ghazat, “tomba degli invasori”, è caduta nello spazio di una settimana e lo Stato islamico è scappato; invece l’ex città bunker di Gheddafi resiste da due mesi. E pensare che il 9 giugno il portavoce dell’operazione libica, il generale Mohammed al Ghasri, aveva dichiarato che la città sarebbe stata liberata “in due giorni”.
I combattenti osservano gli strike aerei contro Is (foto di Daniele Raineri)
Entriamo a Sirte a bordo di una Toyota delle brigate di Misurata. Scende la sera e la città vista dai quartieri sud appare così: da sinistra arrivano i razzi Grad che le katiba sparano da alcune piazzole un paio di chilometri a est e scoppiano con fragore metallico; il settore centrale è sorvolato da due jet partiti dall’aeroporto di Misurata che devono volare a bassa quota perché sganciano bombe a zero intelligenza e non vogliono colpire i loro; a ovest in direzione del porto si sente un botto più forte degli altri e si alza una colonna di fumo bianco, “è un camion bomba”, i combattenti libici lo indicano con il dito, parlano via radio con gli altri settori del fronte e osservano dal bordo della trincea i bagliori e le polveri di questa eruzione artificiale. Le sortite dei camion bomba sono la grande paura degli assedianti, per ora sono state circa quaranta, ogni giorno circola almeno un’informazione “sicura” sul loro arrivo contro la prima linea che taglia a zig zag attraverso la città, a volte è vero e a volte no. A giugno un camion è persino riuscito a passare le linee con disinvoltura ed è andato a esplodere nelle retrovie vicino all’ospedale militare.
In cima ai palazzi, attraverso buchi nei parapetti, i ragazzini delle katiba osservano i movimenti dei veicoli dello Stato islamico nelle strade sotto, a circa duecento metri di distanza, e annotano tutto su un quadernetto, “due macchine sono passate cinque minuti fa, un caterpillar si è spostato in parallelo al fronte, visto tra quei due palazzi là – consultano gli appunti con il Foglio – un camion ha girato quell’angolo a nord sulla destra”. I quadernetti annotati sono letti via radio e poi passati alla sentinella del turno dopo. Sopra i tetti, da ovest a est, c’è tutto un linguaggio delle esplosioni da decifrare: il fumo bianco è l’esplosivo di grado militare estratto da proiettili d’artiglieria dagli artificieri dello Stato islamico e usato per confezionare le autobomba, combustione rapida e colore pulito; fumo nero vuol dire combustione prolungata, le bombe e i razzi hanno forse centrato un bersaglio pagante come un deposito o un veicolo; colore grigio sono le esplosioni delle bombe degli aerei, che a volte vanno a segno e altre a vuoto ma alzano sempre polvere. La collisione tra i battaglioni di Misurata che vogliono vincere a tutti i costi e lo Stato islamico in trappola alimenta una sequenza di detonazioni che non s’interrompe mai, neanche con il buio o con il digiuno del mese sacro di Ramadan, e si limita a calare e salire di frequenza – e avviene tutta all’interno di un rettangolo di sei per due chilometri in cui noi siamo sul bordo inferiore, nella cosiddetta Area 700.
In una pausa dei combattimenti ci si apparta un paio di minuti per bere una bottiglietta di yogurt freddo. Lo si fa con discrezione, si sceglie un angolo meno in vista degli altri per non offendere nessuno perché è Ramadan (finito lo scorso 6 luglio), a Sirte la temperatura tocca i quaranta gradi e non si vuole urtare la sensibilità di chi sta rispettando il precetto: niente cibo e niente bevande fino a quando non cala il buio. In realtà i combattenti sono dispensati dal digiuno perché per fare la guerra è necessario conservare le forze, lo consente la legge islamica, ma sul fronte ci sono anche i duri e puri che insistono a non toccare un goccio d’acqua per tutto il giorno: non si sa mai, vogliono sentirsi con la coscienza a posto dal punto di vista del rigore religioso. “Miàmia”, direbbero loro, “al cento per cento”. Si può capire questa apprensione: i libici che partecipano alla battaglia per liberare Sirte dallo Stato islamico sono un po’ meno di seimila, e già adesso ci sono più di 250 morti e millecinquecento feriti, vuol dire che più o meno uno su cinque è stato colpito e ancora deve cominciare l’avanzata dentro i quartieri più stretti e densi di case. Non che i salafiti in prima linea farebbero scenate se vedessero il vicino bere a canna dalla bottiglia, ma il sospetto è che quella visione, sotto il sole che fa stramazzare, potrebbe aggiungere tensione gratuita. Quelli che possono, i più smilzi, si sdraiano a dormire nei rettangoli d’ombra sotto i veicoli. Un caso in cui si lamentano è se qualcuno accende una sigaretta a portata delle loro narici – fumare è un’altra cosa proibitissima fino al tramonto. Il mare, un Mediterraneo al suo meglio – blu, pulito e vuoto –, è a due chilometri di distanza.
Militari italiani caricano combattenti libici feriti durante l’assedio di Sirte per trasportarli a Roma, domenica 26 giugno all'aeroporto di Misurata (foto di Daniele Raineri)
C’è un detto militare che sostiene: “I dilettanti parlano di strategia, i professionisti si occupano della logistica”. Gli yogurt, le bottigliette d’acqua e le lattine di Pepsi stanno nelle borse frigo che i soldati libici portano in prima linea, assieme con i nastri delle mitragliatrici e i razzi. E’ qui che si vede l’efficienza relativa dell’organizzazione delle brigate di Misurata, che assieme formano l’unica forza in Libia che poteva venire qui a sfidare lo Stato islamico nella sua capitale. In teoria anche i soldati del generale Khalifa Haftar avrebbero potuto montare un’offensiva militare di questa portata, ma sono occupati in un’altra parte del paese, parecchio più a est, a combattere in alcune sacche residue di resistenza nella città di Bengasi. Se venissero a Sirte sarebbero troppo lontani dalla loro giurisdizione e non è affatto sicuro che sarebbero i benvenuti. Anzi, c’è il rischio concreto che le katiba e le forze di Haftar se fossero costrette a coabitare sullo stesso fronte finirebbero per spararsi addosso, con grande godimento dello Stato islamico assediato. E’ proprio grazie alla rivalità aperta tra Misurata e Bengasi che gli estremisti sono diventati così forti in Libia nel giro di due anni.
Questa operazione per prendere Sirte ha un nome ufficiale, Banyan al Marsous, che in arabo vuol dire l’edificio dalla fondamenta solide, e su Twitter la trovate abbreviata in: #BAM. BAM si sarebbe già spenta in un nulla di fatto se non fosse per i rifornimenti che arrivano da Misurata dopo duecento chilometri di strada in mezzo al deserto. Ogni giorno un’ora prima del tramonto i camion fanno il giro del fronte di Sirte per portare munizioni a tutti i settori. Altri camion scaricano casse di proiettili per l’artiglieria e i carri armati nei cortili delle basi. Volontari in abiti civili scendono dai furgoni con grandi borse di ghiaccio tritato e riempiono le borse frigo. Poco prima dell’iftar, che è la rottura rituale del digiuno, la logistica di questa guerra in autogestione arriva al suo picco massimo, è un via vai di macchine civili che portano confezioni di riso, di carne, di biscotti, di bottiglie d’acqua, di succhi di frutta. Si accendono i generatori di corrente elettrica. Poco fuori Sirte è piazzata una lunga autocisterna di carburante gratis per riempire i serbatoi di tutti i veicoli delle brigate che prendono una pausa dalla prima linea – un dettaglio militare prezioso pure in un paese dove la benzina costa dieci centesimi di euro al litro. In senso inverso, sulla strada verso Misurata si allontanano le ambulanze che trasportano i feriti – ce ne sono una decina a disposizione. Un’altra dimostrazione di efficienza è che i permessi giornalistici per lavorare a Sirte valgono in ogni settore del fronte e sono accettati da tutti – che è una cosa non scontata in Libia. Le katiba sono autonome e gelose, ma sono capaci di unificarsi per il raggiungimento di un singolo obiettivo militare. Nel 2011 fu la cattura e l’uccisione del colonnello Muammar Gheddafi. Oggi è spazzare via lo Stato islamico da Sirte.
I Grad sono razzi lunghi un paio di metri che decollano con un rumore lacerante, come la frenata di un tir però passata dentro il microfono di un concerto allo stadio. Le brigate hanno scorte importanti di Grad, ne fanno partire uno o due all’ora e a giudicare dalla traiettorie che tracciano in cielo non sono armi precise, ogni tanto qualcuno devia a nord e si perde sopra il mare (domanda taciuta: che si fa se invece gira da questa parte?). A terra se ne vedono un po’ tra le casse di munizioni, appoggiati qui e là nei cortili, pronti all’uso – eppure non c’è un solo ufficiale che in un’intervista non chieda: “Abbiamo bisogno di armi, la comunità internazionale deve annullare l’embargo contro la Libia se volete che schiacciamo Daesh al posto vostro”.
Anche lo Stato islamico ha i suoi razzi e una sera ne ha sparato uno con precisione contro la piazzola da dove partivano i Grad delle brigate, appena cinque minuti dopo un lancio, razzo contro razzo, e queste cose alimentano il carnevale di dicerie a proposito degli assediati così tenaci.
A bordo di una Toyota delle brigate di Misurata che vanno e vengono dalla prima linea (foto di Daniele Raineri)
Molti combattenti amano ripetere queste voci, che si possono riassumere così: 1. Quelli dello Stato islamico sono aiutati da ex soldati francesi (può essere, le loro frequenze radio, di rado, parlano anche in francese, del resto con tutti i tunisini che ci sono e con i misuratini a origliare il francese è una scelta linguistica più sicura dell’arabo); 2. Sono aiutati dall’intelligence francese (da escludere. Chiedo: davvero l’intelligence francese aiuta lo Stato islamico? Dopo quello che è successo a Parigi? Silenzio); 3. Sono aiutati dai giornalisti francesi che danno loro le coordinate delle basi, perché “i giornalisti sono spie” (gelo, questo tipo di accuse aggiunge un livello di difficoltà al lavoro); 4. Alcuni sommergibili di provenienza non meglio specificata sono poco al largo della costa per evacuare i capi dello Stato islamico alla prima occasione utile. Questa non vale nemmeno la pena di commentarla, ma rende l’idea del clima. Una nota importante: a metà luglio in un’altra parte della Libia molto lontana un elicottero delle forze del generale Haftar – che tocca ripeterlo, sono detestate dai misuratini – è stato abbattuto e sopra c’erano tre uomini dell’intelligence francese. Facile immaginare l’effetto di questa notizia nel campo delle katiba a Sirte.
I carri armati sparano contro i palazzi della città da distanza ravvicinata, sono vecchi arnesi sovietici progettati per irrompere e sferragliare nelle pianure del centro Europa e terrorizzare la Nato e invece qui stanno quieti come bestioni in agguato, spunta giusto il muso tra gli angoli delle case fino a quando il nemico non si tradisce con un movimento sospetto. Ogni ora a Sirte c’è una scena come questa: da un punto d’osservazione indicano ai carristi una postazione dello Stato islamico, a cento metri, al terzo piano di quell’edificio, “Al yamin shuaia shuaia” gracchia il walkie talkie, un pochetto a destra, e poi il carro spara in successione rapida e piazza due colpi nel fianco di un palazzo, uno per piano, “Allahu akhbar allahu akhabar”, Dio è il più grande Dio è il più grande, dice la radio a mo’ di conferma, perché in questa battaglia Dio è il più grande su entrambi i lati del fronte.
Un foro d’entrata di mezzo metro del proiettile di carro diventa una voragine di quattro metri nelle parete d’uscita e genera una nuvola grigia di calcestruzzo che porta via con sé tutto quello che incontra sulla sua traiettoria, letti e condizionatori d’aria e ricordi di famiglia e tapparelle e pentole che finiscono a rotolare in strada dal lato opposto. Se dentro c’era una postazione dello Stato islamico e quegli uomini sono ancora coscienti, stanno scendendo le scale per raggiungere qualche altra postazione. Uno dei duelli più comuni è quello tra un carro armato e un singolo cecchino dello Stato islamico, di cui si intuisce il nascondiglio fra i mille angoli di una prospettiva urbana soltanto con qualche approssimazione, si sente il colpo vicino, ma non si capisce da dove spara. Sembra che ci sia una sproporzione di forze tra il carro e l’uomo, ma a Sirte i cecchini sono capaci di spegnere un’offensiva e di trasformarla in uno stallo, in un pomeriggio hanno ucciso più di trenta combattenti. Le munizioni dei carri armati sono ammonticchiate in montagne di casse dentro le basi dei battaglioni, che sono case e ville requisite, tanto i civili dentro Sirte non ci sono quasi più: due colpi per cassa, pile da cinque casse, sono cumuli da cento colpi destinati a essere usati tutti prima della fine delle operazioni.
Queste casse di proiettili per i carri armati fanno parte della grande dote lasciata dalla rivoluzione del 2011 ai gruppi ribelli di Misurata: una parte degli arsenali che Gheddafi accumulò per decenni. “Noi come scemi facevamo baldoria per la fuga di Gheddafi dalla capitale”, dice al Foglio Ahmed, un giovane di Tripoli con il dono della sintesi “e quando abbiamo finito di festeggiare ci siamo accorti che intanto loro, i misuratini, si erano portati via tonnellate di armi, verso i loro depositi”. I battaglioni bene armati hanno fatto di Misurata la città-stato che deve essere ascoltata quando si parla del futuro della Libia, anche se di solito ci si limita a raccontare il paese con uno schema binario: di là Tripoli e dall’altra parte Bengasi. Quelli di Misurata hanno collaborato al piano di pace sponsorizzato dall’Italia e hanno accettato l’insediamento a marzo del premier Fayez al Serraj a Tripoli, rendendolo di fatto possibile, anche se l’insediamento non è avvenuto in un palazzo di governo ma in una base navale sul lungomare, con una barca a portata di mano per scappare in caso di guai.
Ora tuttavia la cordialità si sta esaurendo: i combattenti di Misurata dicono al Foglio che sono stanchi di Serraj, perché non fa nulla, perché non è un leader, perché non si fa vedere a Sirte e non parla della battaglia nemmeno in tv, perché non riesce a risolvere i problemi della popolazione. La preoccupazione numero uno nella Libia dell’ovest e soprattutto nella capitale, prima ancora dei black out elettrici e della sicurezza, è la mancanza di valuta, l’assenza fisica di banconote, che secondo una teoria popolare sono risucchiate nei paesi vicini dagli speculatori che le usano per i loro traffici. E’ una teoria che deve essere dimostrata, ma crea una paura reale: una guardia all’aeroporto blocca il giornalista del Foglio perché nel portafogli ha cento dinari, che equivalgono a meno di 25 euro sul mercato nero. La gente non può ritirare più di trecento dinari a settimana dagli sportelli delle banche e questo crea attese infinite sotto il sole.
C’è risentimento anche contro l’Italia, vista di riflesso come portavoce della comunità internazionale che ha messo Serraj al potere e che vuole uno sforzo contro lo Stato islamico e poi non aiuta. Domenica 26 giugno un cargo militare italiano è atterrato a Misurata per portare in alcuni ospedali di Roma diciassette combattenti feriti a Sirte, come prima tranche di una serie di interventi di assistenza, e questo ha calmato gli animi verso l’esterno ma non verso il governo libico. Al Foglio qualche combattente arriva a dire che una volta finita la battaglia di Sirte, “allora tocca a Tripoli”, nel senso che le brigate si sposteranno nella capitale per insediare un governo più di loro gradimento. Sirte sarebbe insomma una fase preliminare, per togliersi di torno la minaccia dello Stato islamico prima di pensare alla vera lotta di potere, contro l’inefficienza di Serraj e contro i rivali di Bengasi. Qualcuno è ancora scettico sulla necessità della campagna contro lo Stato islamico: tra Misurata e Sirte ci sono duecento chilometri di deserto, potevamo limitarci a contenerli con dei posti di blocco e aspettare che si facesse avanti la comunità internazionale, perché dobbiamo fare noi il lavoro sporco? Lo facessero loro, o almeno ci dessero aiuti. Tradotto: ci dessero armi, come fanno in Iraq.