Fredda e poco retorica, Hillary accetta la nomination e attacca Trump
Philadelphia, dal nostro inviato. Vestito bianco, scenografia perfetta, overture pop sontuosa di Katy Perry e introduzione non proprio frizzante ma efficace di Chelsea, che ha dato il tocco personale a una storia raccontata così tante volte da rischiare l’effetto disco rotto, Hillary Clinton è salita sul palco di Philadelphia e ha accettato la nomination del partito democratico, promettendo una “resa dei conti” alle elezioni di novembre contro Donald Trump.
E’ partita dall’unità, il concetto americano fondante che campeggia nello slogan “stronger togheter”: “Forze potenti minacciano di dividerci, legami di fiducia e rispetto si stanno sfaldando, e come per i nostri Fondatori, non ci sono garanzie. Dipende solo da noi. Dobbiamo decidere se vogliamo lavorare insieme per risalire di nuovo insieme”, ha detto Hillary, implorando il popolo americano di “non credere a chi dice ‘solo io posso risolvere il problema’”. Ha suggerito, attraverso un’ardita analogia implicita con Re Giorgio III, che Trump non è soltanto un avversario politico, ma un nemico che minaccia l’unità della nazione. L’integrità dell’unione ha innervato un’orazione a tinte patriottiche coronata da un trionfo di bandiere. Trump aveva punzecchiato gli avversari per l’assenza di vessilli americani alla convention, e per non sbagliare nel palazzetto di Philadelphia sono comparse migliaia di star-spangled banner agitate dalla folla. Un elemento appropriato nel crescendo patriottico messo in scena a partire dall’appello in stile reaganiano di Barack Obama, mercoledì sera.
Come ha osservato acutamente qualcuno, Hillary fa campagna in prosa e governa in prosa, e dopo le monumentali lezioni di retorica a sfondo emotivo offerte da Michelle Obama (a lei va la palma del discorso più applaudito, più discusso, più citato della convention), da Barack e da Joe Biden, il discorso di accettazione di Hillary è apparso inferiore per trasporto e carica emotiva. La freddezza è il tradizionale punto debole di Hillary, e forse anche l’emozione di pronunciare parole che le girano nella testa da almeno otto anni ha influito negativamente sulla performance.
Le lacune retoriche le ha colmate, al solito, con i contenuti. Ha parlato innanzitutto al popolo democratico e progressista, ringraziando Bernie Sanders e promettendo ascolto e collaborazione alla frangia più estrema che l’ha incalzata da sinistra: “La vostra causa è la nostra causa”. Nonostante questo, ieri sera c’è stata una nota flebile eppure irritante di contestazione. Più volte i sostenitori hanno dovuto intonare il coro “Hillary! Hillary! per coprire i disturbatori, troncando a metà le frasi della candidata. Ha parlato dei lavoratori, promettendo nei primi cento giorni di governo investimenti per creare posti di lavoro, ha reiterato i punti noti su salario minimo, lotta alle diseguaglianze, università pubblica gratuita (una delle concessioni fatte a Bernie), si è mossa su un crinale quando ha detto che “Wall Street non insidierà più main street” e quando ha inserito la sua vicenda personale nell’epopea della working class. Ma sono espedienti che funzionano quando si gioca in casa. Così come funziona la proposta di approvare “misure di buon senso” per controllare la diffusione delle armi da fuoco.
Poi è andata a memoria sul suo terreno preferito, la politica estera, con la lotta a Isis come priorità fondamentale, anche se – contrariamente a quanto fatto da Obama mercoledì sera – non ha parlato di jihadismo né ha qualificato il terrorismo come islamico o islamista, lei che solitamente utilizza la formula “jihadismo radicale”. Gli attacchi a Trump li ha cuciti all’interno del discorso, mettendo in dubbio non soltanto il suo giudizio, la competenza e la capacità del governo, ma la sua pretesa di rappresentare il Partito repubblicano. Durante la serata erano saliti sul palco diversi repubblicani disgustati da Trump che hanno fatto la loro promessa: “I’m with her”.
“Sarò un presidente per i democratici, per i repubblicani e per gli indipendenti”, ha detto Hillary, ripetendo una formula standard che in questo contesto assume un significato particolare, visto che l’obiettivo dichiarato è cucire una coalizione che accolga anche transfughi conservatori. La chiusura è un rovesciamento positivo del motto dell’avversario: “L’America è grande perché l’America è buona”.