Trump batte Hillary e altri passaggi poco rassicuranti da un incubo all'altro
Sta sotto. Due milioni in meno di spettatori televisivi per il discorso finale alla Convenzione del partito. I sondaggi premiano di misura Trump e castigano per adesso Hillary. Finché hai le star, presidenti ex presidenti sindaci di New York e show business vario, può anche andare (le altre tre serate televisive da Filadelfia sono vinte dai democratici per livello di ascolto). Ma quando arrivi al dunque, l’ex First Lady ex segretario di stato ex senatore, quella che ha fatto per Trump un discorsetto appena “mediocre”, soccombe con tutto il suo ottimismo, la sua speranza, la sua correttezza ideologica, la sua conformità ai canoni del demone volitivo e fattivo e costruttivo americano. L’altro è il profeta di sciagura, l’uomo forte che promette legge e ordine attraverso il caos, il disordinato e inaffidabile outsider, quello dal quale non compreresti mai un’auto usata, ma quell’altro è il cambiamento, il trauma, il riflesso di una società ingrugnita e in rivolta che appena otto anni fa sembrava incartata nella stoffa multicolore della coalizione vincente delle minoranze etniche e delle buone intenzioni, e “yes we can”, e vota Obama.
Da un certo punto di vista uno dovrebbe trovare comunque rassicurante che il modello di governo e di coesione sociale sia reversibile, che la democrazia sappia subire il disincanto, la delusione, la rabbia della folla, e che la scelta dopo anni di luccicante gloria pol. corr. finisca per essere buia, spettacolare, novissima, con un candidato al quale Cia e Fbi vorrebbero poter non riferire le loro nozioni del mondo perché, dicono, “è totalmente disinteressato alla verità e irresponsabile se gli viene mostrata”. Invece questa idea di uscire da un incubo ideologico per entrare in un altro, di essere condannati al plumbeo solipsismo e alla grandiosità egoriferita del magnate come via d’uscita dalla politica patinata e retorica dello star system democratico e liberal di establishment, quest’alternativa secca, bè, non consola e non rassicura.
C’è stata un’epoca in cui la realtà era un oggetto visibile e un metro di misura. Bisognava conoscerla, definirla, interpretarla, danzarle attorno, e certo anche allora erano vagonate di retorica, lo spazio era aperto ai demagoghi, la menzogna sapeva prendersi il suo posto in scena, non è che fosse l’Eldorado, ma alla fine i partiti, le tradizioni politiche, le istituzioni politiche avevano un centro al quale fare riferimento, sembrava possibile scavare e trovare, e mettersi d’accordo anche su un punto medio, il territorio cosiddetto bipartisan, in cui si fondevano il conflitto e il compromesso. L’impressione è che il tempo della comunicazione e della grande fuffa millennial abbia portato o stia portando a una specie di Brexit universale, con i sistemi politici che escono da sé stessi, i linguaggi della società che diventano incomunicabili, e la pancia del paese cosiddetta che impone a tutti i suoi borborigmi e le sue indigestioni. E’ uno strano segmento della storia quello in cui un Trump e un Salvini possono scambiarsi di immagine e di ruolo in una photo-op, mentre Marine Le Pen tace e la Francia si affida alla frequentazione musulmana della messa.
L'editoriale del direttore