Il Brasile maravilha e la sua sculettante, infernale umanità carioca
Non mi piace fare lo spoiler, l’aguafiestas, ma se il mitologico Brasile dei cantori di Rio Maravilha mi ricorda l’inferno invece che il Paradiso, bè, non posso farci niente.
Non mi piace fare lo spoiler, l’aguafiestas, il wet blanket. Ho anzi un carattere entusiasta e amo stare in mezzo, se non proprio “partecipare”, verbo sociologizzato e ucciso dai cattolici di sinistra anni Settanta (Vittorio Sermonti scherzava con gusto del teatro partecipato: parte cipato, diceva, e parte non cipato). Ma se il mitologico Brasile dei cantori di Rio Maravilha mi ricorda l’inferno invece che il Paradiso, bè, non posso farci niente. E’ il loro momento, dei cantori, dico. Il pacchiano globale delle Olimpiadi inaugurali sta dando il meglio di sé con il decisivo contributo della regia e coreografia italiana dello pseudo-evento. I cronisti meno sensibili al ritmo di samba riferiscono che lì, al Maracanã, in effetti si vede un tubo, e il grande spettacolo (per così dire) riguarda più la televisione e i social media e il circuito degli sponsor raccontato con brio per il Foglio da Michele Boroni che non il suo pubblico diretto. Fioccano (Aldo Grasso) paralleli con le Olimpiadi del Reich 1933 e Leni Riefenstahl, e questi paralleli sono atti di ri-conoscenza davvero curiosi, le cui conseguenze potrebbero essere spaventevoli. Comunque, da quel che si vede sul monitor e si legge è chiaro che il Brasile è solidale con il mondo che è solidale con il Brasile, e questo consola, partecipano perfino i dannati della terra scacciati dagli orchi delle guerre tribali, i giochi si fanno in un paese topico dell’umanità, un luogo deputato alle caratteristiche prevalenti della civilizzazione contemporanea a certe latitudini, un teatro di strada che il liberismo sfrenato globalizzatore aveva messo in carreggiata e la socialdemocrazia corrotta ha saputo ridimensionare spietatamente: vera miseria e falsa allegria. Pare una replica della papale Copacabana, il perdono e l’assenza di giudizio, però sculettante.
C’è il bacio gay molto applaudito, la delegazione italiana osannata, il presidente brasiliano impostore fischiato, il ricordo dei giganti socialdemocratici e trabajadores con le mani in pasta nel governo e nella corruzione, ci sono gli atleti e le atlete che cercano di salare con i costumi, i corpi e le anime di un bel gioco ancora da venire il sale sciapo della cerimoniosità. De Coubertin aggiornato al politicamente corretto in versione mercosur e al volemose bene produce strani effetti speciali. E’ ovvio che non si può non amare il Brasile, sopratutto a starne ben lontani e a sognarlo come un non ancora, e non si può non attribuire allo sport olimpico il segno, comunque e da chiunque portato, da Hitler o dal successore di Lula, di una scelta di stile nell’esercizio dello strano umanesimo dei regimi. Ma questa immensa feijoada carioca, a qualche anno dai mondiali di calcio finiti con la Grande Umiliazione Nazionale (mi pare un 7 a 1 contro la Germania) per me ha un sapore triste, che volete farci.
Forse a stare appunto in mezzo, a sentire il sangue dell’evento che pulsa, le cose cambierebbero, non lo escludo. Ma così è dura. Hanno fatto accendere il braciere a un atleta vittima di uno squilibrato, uno di noi, uno che viaggia in treno, uno che balla nella disco gay di Orlando, uno del Bataclan o dell’Hyper Cacher, perché non esistono guerre di religione, forse, ma certo in giro c’è un notevole abbondante squilibrio. Il Brasile maravilha cantato e rappresentato per noi riflette bene il tempo del grande spavento globale, ma ridendo e scherzando non se ne accorge nemmeno.