Trump? Il migliore alleato del pol. corr.
Da subito tentammo qui di metterlo in chiaro. Era lo scorso gennaio, vent’anni dopo il nostro inizio, e stavano montando alla grande le primarie trumpiste. Mettere in chiaro che cosa? Che il vociferante nemico del politicamente corretto (di qui in avanti pol. corr.), quel Trump che dannava le convenzioni bolse dell’establishment repubblicano e democratico, e degli intellettuali e literati tutti, si profilava come il maggior ostacolo immaginabile alla predicazione conservatrice o libertaria, come volete, di un mondo non ingabbiato dai codici culturali e linguistici dell’ideologia mainstream dei ceti liberal o progressisti. Siccome siamo sofisticati e scriviamo per pochi, quindi abbiamo meno bisogno di dilungarci ed espanderci, facemmo tutto a nostro modo: noi siamo quelli che contro il pol. corr. hanno marciato con Barney Panofsky, Robert Hughes, Andrea Marcenaro, Camillo Langone, Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger, ora non ci facciamo fregare da una destra americana scontenta di sé, e con buone ragioni, che “plaude eccitata nelle adunanze di un tizio, pettinato come non si dovrebbe, che fa l’imitazione degli handicappati, maltratta le donne come un maghrebino ubriaco (ooops!), anima lo scontro di civiltà di una passione difensiva e isolazionista indecente per un grande paese già costretto dalla combriccola universitaria obamiana alla leadership from behind, cioè all’inazione”. Da allora niente è cambiato, salvo il dettaglio che Trump ha vinto la nomination, è in corsa per la presidenza degli Stati Uniti, e dice cose poco chiare su come il popolo che ha un gun, un fucile, può contribuire a liberarsi della Clinton e dei giudici che lei potrebbe nominare alla Corte suprema (bum bum!), e scusate se è poco.
Se fummo ellittici e spero graziosamente eloquenti invitando tutti a insistere nella battaglia, nonostante i gorgheggi grotteschi di The Donald, ma scegliendo toni sempre più ironici e squisiti, duri contro i conformisti del linguaggio e delle opere ma con una buona disposizione d’animo verso il genere umano, oggi un professore di Legge e Costituzione che si chiama Ilya Somin, della George Mason University, ripercorre la questione, nel Washington Post, con molta chiarezza delle coordinate e con assoluta semplicità di stile e di logica. Riproviamoci. Somin riconosce che Trump si propone come nemico del pol. corr., ma si domanda: con quale effetto? Gli ideologi del correttismo sostengono che quella storia del pol. corr. è solo la copertura di idee razziste, bigotte, conformiste e sessiste dei conservatori e dei libertari. E concludono: bè, se sono suprematisti bianchi, tanto vale imporre alla società codici linguistici, zone protette dalle perversioni intolleranti nelle università, tanto vale rimuovere le statue dei segregazionisti della prima metà del Novecento o dei colonialisti che quelle università hanno fondato, riscrivere la storia, farci tutto in confezione ideo-totalitaria, a modo nostro.
Trump dice che gli immigrati messicani sono killer o stupratori, che un giudice americano di discendenza messicana non può giudicarlo in un processo, che ai musulmani va negato il visto in quanto musulmani, e tante altre belle cosette sulle donne, sugli handicappati eccetera (altro che il trio delle cicciottelle!), infine che il diritto a portare armi il popolo armato saprà difenderlo come deve dalle trame abrogazioniste della Clinton. Se è lui l’alternativa al pol. corr., allora molti che pensano cose diverse da queste diventeranno amici del pol. corr., più o meno. E ha ragione il professor Somin: Trump sembra fatto apposta per convalidare e fortificare la sconcezza del correttismo politico come nuova ideologia di stato che imbraca la società e la libertà di pensiero e di espressione. Eppure, aggiunge, noi conservatori o libertari dobbiamo contendere a vaste maggioranze potenziali la credenza in questa mentalità totalitaria, che si fonda sullo spirito censorio. E siccome niente discredita la lotta al pol. corr. quanto il fatto che il suo presunto alfiere (ovvero Trump) faccia della scorrettezza un’impalatabile oscenità, allora chi nel suo stesso campo potenziale lo combatte, chi se ne dissocia, chi è #nevertrump, rende un servizio alla causa molto più che non un tributo elettorale, diretto o indiretto, a Hillary Clinton. E questa è una verità inoppugnabile.
Basta leggere il saggio biografico di Mattia Ferraresi sulla “febbre di Trump” (Marsilio), o le corrispondenze americane free lance di Francesco Costa, per capire una volta per tutte quanto il fenomeno Trump sia americanissimo, complicatissimo, interessantissimo e non riducibile ad alcuno schema troppo semplificato. Ma alla fine non è vero, come scrive Somin, che Trump deriva dai tea party e dalla resa all’estremismo dell’establishment repubblicano. Trump ha sovvertito con un’esplosione di demagogia politica, radicata nella situazione del mondo e degli Stati Uniti dopo otto anni di Obama, la piattaforma economica e morale del Grand Old Party, ed è stato percepito fra mille contraddizioni come lo sradicatore di una tradizione fondata sulle libertà americane e sullo small government. Sbarrargli il passo, prima che a un terzo mandato degli obamiani sotto Clinton, serve a salvare la possibilità di pensare liberamente e agire in autonomia e indipendenza dal politicamente corretto.