L'Europa non lasci a Putin il ruolo di kingmaker del medio oriente
Se i leader di Unione Europea e Stati Uniti sembrano non avere le idee chiare sulla strategia da adottare per risolvere il complicato puzzle del medio Oriente, la Russia di Vladimir Putin sembra invece molto convinta di quello che va fatto per giocare un ruolo di primo piano nell’area e per tutelare il proprio interesse nazionale. L’incontro “riparatore” che si è tenuto a San Pietroburgo tra Putin e Erdogan, unitamente alla visita del giorno prima del presidente russo a Baku per un vertice trilaterale con il leader azero Alyiev e quello iraniano Rouhani, sono chiari esempi della volontà del presidente russo di esercitare una funzione di powerful “broker” tra sciiti e sunniti. E’ evidente come Mosca intenda porsi come ago della bilancia in medio oriente grazie alla tessitura di relazioni positive con tutti i principali “player” dell’area, divisi tra loro dalla lotta millenaria tra sunnismo e sciismo.
Da una parte, il riavvicinamento tra Russia e Turchia è una tappa importante per ridefinire i rapporti di forza in medio oriente e soprattutto mettere pressione sulle potenze occidentali. In gioco non vi è soltanto la ripresa delle relazioni economiche bilaterali, “congelate” dall’embargo imposto da Mosca in seguito all’abbattimento del caccia russo da parte dell’esercito turco (la rimozione delle sanzioni avverrà peraltro in maniera graduale), quanto la possibilità reciproca di inviare un chiaro messaggio a Nato e Ue. Senza troppo “tatto” diplomatico, Erdogan ha segnalato nel corso delle ultime settimane a Bruxelles e Washington il proprio disappunto per la presa di posizione un po' tardiva contro il golpe del luglio scorso e, con il riavvicinamento a Mosca, alza la posta lasciando intendere che il suo potere negoziale si è accresciuto. Putin, dal canto suo, sfrutta abilmente il “vuoto” geopolitico lasciato dalle potenze occidentali, che avevano lasciato fare la Turchia nel contrastare Assad in Siria (ma con i pesanti effetti collaterali che purtroppo oggi conosciamo), rafforzando la sua posizione nel quadrante mediorientale. Inoltre, più sottile ma non meno importante è il tentativo russo di evitare una nuova deriva di tipo “khomeinista” in Turchia, controllando che il giro di vite successivo al tentativo di golpe non riproduca quanto accaduto quasi quarant’anni fa nell’Iran dello Scià, con le manifestazioni di massa a favore del leader sciita che spazzarono via ogni vestigia dell'influenza occidentale nel paese.
A complemento naturale di questa strategia vi è l’incontro dell’8 agosto con Rouhani, leader di un Iran che si ritiene deluso per non avere ottenuto i dividendi sperati dall’accordo sul nucleare raggiunto ormai un anno fa con gli Stati Uniti. Rafforzando i rapporti con Teheran e Ankara, rispettivamente i più potenti rappresentanti dell’Islam sciita e sunnita, Mosca ambisce a giocare il ruolo di stabilizzatore in Medio Oriente. Terreno di scontro principale è ovviamente la Siria e il futuro di Assad: a questo proposito, un interrogativo interessante è cosa farà la Turchia, all’indomani della pace ritrovata con la Russia. Ankara cambierà atteggiamento nei confronti del regime di Damasco oppure continuerà a sostenere, più o meno apertamente, i gruppi oppositori ad Assad più estremisti il cui controllo è sfuggito allo stesso Erdogan?
Il presidente iraniano Hassan Rouhani, il presidente dell'Azerbaijan Ilham Aliyev e il presidente russo Vladimir Putin (foto LaPresse)
Le condizioni attuali sembrano perciò propizie affinché l’azione equilibratrice di Mosca possa contribuire ad un miglioramento complessivo a suo favore della stabilità nella regione. Non vanno poi sottovalutate le conseguenze sugli altri attori coinvolti.
Pensiamo all’Arabia Saudita, custode dei luoghi santi dell'islam e fedele alla sua versione integralista wahabita, e agli altri stati “satelliti” del Golfo, in maggioranza sunniti. Riyad rischia di essere la grande esclusa di questa triangolazione orchestrata da Putin, che potrebbe portare anche a possibili azioni destabilizzatrici, magari “per procura”. Ma pensiamo soprattutto a noi europei e agli Stati Uniti, in questo momento prudenti più del solito e anche sfavoriti dal vantaggio competitivo sfruttato abilmente dalla Russia. Gli Stati Uniti, da qui fino alle Presidenziali, sono destinati molto probabilmente alla paralisi: se da un lato registriamo l’”imbarazzo” di Trump nella formulazione delle sue linee di politica estera (con l’annuncio di una grande apertura a Putin), dall’altro constatiamo con un filo di preoccupazione lo stallo di Hillary Clinton, preoccupata a risolvere i grossi problemi di consenso interni al Partito democratico. La campagna americana in Libia lanciata dal presidente Obama per distruggere le sacche di resistenza dell'Isis, potrebbe essere così letta come un diversivo e la volontà di apertura di un altro fronte che allenti la pressione turco-russa.
Non rimane dunque che l’Unione Europea, la quale ovviamente comprende l’Italia, che non può rinunciare alla volontà di avere un ruolo importante in questa crisi, alla luce della nostra posizione nel Mediterraneo. Al di là delle questioni prettamente militari, il nostro paese può intervenire concretamente sulla questione dei migranti, che è una componente fondamentale della crisi in Medio Oriente, e su cui Erdogan fa leva per rafforzare il suo potere negoziale. Riuscire a ottenere una voce comune e decisa in ambito Ue sulla problematica migranti/rifugiati sarebbe già un primo importante passo per non lasciare alla Russia di Putin il titolo di unico “kingmaker” in Medio Oriente.
Giovanni Castellaneta è ex ambasciatore d'Italia in Iran (1992-1995), in Australia (1998-2001) e negli Stati Uniti d'America
Cosa c'è in gioco