L'immigrazione non ci salverà
Quelli pubblicati in questa pagina sono stralci di un saggio apparso sull’ultimo numero (“Chi siamo?”) della rivista Limes, diretta da Lucio Caracciolo, disponibile ora nelle edicole e nelle librerie, oltre che sul sito www.limesonline.com.
Viene da tempo quasi ossessivamente ripetuto un mantra. L’Italia, si dice, sarebbe un paese in via di progressivo invecchiamento, nel quale un numero sempre più piccolo di persone in età lavorativa dovrà farsi carico di una quantità crescente di anziani in pensione e bisognosi di costose cure sanitarie. Per questo motivo, ogni anno dovremmo importare centinaia di migliaia di uomini e donne dal resto del mondo, possibilmente giovani e ben istruiti. Spetterebbe a queste masse di stranieri il gravoso compito di compensare il collasso demografico determinato dall’affermazione dei valori del femminismo nella nostra società, garantendo con il loro lavoro e i loro contributi la sostenibilità a lungo termine del nostro sistema di welfare. Senza cogliere l’implicito sottile pregiudizio razziale nei confronti di chi arriva, sembriamo desiderare una situazione in cui noi italiani, distrutto lo stato e affossata la famiglia, prendiamo atto del nostro declino e affidiamo ai nostri ospiti il compito di mantenerci al posto dei nostri figli, che abbiamo rinunciato a generare per vivere più comodamente e con meno vincoli.
L’argomentazione ha il suo fascino, specialmente quando è presentata con dovizia di dati e grafici relativi al presumibile andamento delle variabili più importanti per la sopravvivenza delle nostre società. Ma è molto meno solida di quanto appare, alimenta pericolose illusioni e comunque tende a trascurare alcuni elementi essenziali, invece, al calcolo di convenienza relativo al modello di futuro che vogliamo. Non siamo la Germania e meno che mai gli Stati Uniti, neanche sotto il profilo della capacità di accogliere immigrati e farne una risorsa per il progresso economico, sociale e tecnologico del nostro paese, malgrado per anni ci si sia baloccati con l’idea di attrarre con incentivi di dubbia efficacia moltitudini di stranieri qualificati, per i quali non esistono veri posti di lavoro, a meno di non voler considerare tali la possibilità di vendere rose ai turisti o quella di lavare i vetri alle macchine. E’ bene essere consapevoli che la realtà è drammaticamente diversa da come alcuni se la immaginano: non solo non riusciamo a importare cervelli dall’estero, ma stiamo perdendo una significativa quantità dei nostri giovani più istruiti, che hanno ripreso a emigrare. Nel solo 2014 se ne sono andati in 101.297, molti con la laurea in tasca. E rischiamo di innescare un nuovo conflitto sociale.
Il primo punto fondamentale contro il quale si scontra la teoria dell’immigrazione come necessità economica imposta dalla difficoltà di sostenere il nostro welfare è in effetti proprio l’incapacità dimostrata dal nostro sistema produttivo di generare opportunità lavorative adeguate quantitativamente e qualitativamente a soddisfare le aspettative di chi vorrebbe trovare un’occupazione. I dati parlano chiaro: non solo conviviamo da tempo con una disoccupazione elevata, superiore al 10 per cento, con picchi tra i più giovani che localmente raggiungono anche il 40 per cento, ma la difficoltà di trovare un impiego accettabile è tale che l’Italia si distingue in negativo dai suoi partner europei anche per il basso tasso di attività della sua popolazione. Siamo diversi punti sotto la media europea, intorno al 60 per cento contro il 68 per cento, e la percentuale tende a calare ulteriormente. Espelliamo facilmente dal mercato del lavoro le donne che hanno optato in extremis per la maternità. E prepensioniamo allegramente gente ogni qualvolta ci sia da agevolare una riconversione produttiva o sia necessario tagliare posti di lavoro, tanto nel settore pubblico quanto in quello privato.
Nell’Europa centro-settentrionale la situazione è stata a lungo differente: per decenni le principali potenze industriali del continente hanno infatti sistematicamente generato occupazione eccedente le potenzialità demografiche interne, anche a causa dei “buchi” aperti nelle rispettive società dai massacri verificatisi nella Seconda guerra mondiale. Le donne non sono rimaste escluse dai processi produttivi nella misura che si continua a osservare da noi. E si è ovviato alle carenze di manodopera anche negoziando da governo a governo l’arrivo dei lavoratori stranieri necessari a far funzionare a pieno regime miniere e fabbriche. Persino la Repubblica democratica tedesca, cioè la Germania comunista di Ulbricht, dovette risolversi a importare lavoratori dal Vietnam. In Italia, non è mai accaduto nulla di tutto questo.
Proprio il persistente gap tra i tassi di attività precedentemente menzionato riflette bene la differenza dei contesti. Non è un caso che gli stessi migranti che sbarcano sulle nostre coste cerchino in gran numero di raggiungere al più presto una frontiera per proseguire il viaggio e arrivare dove le probabilità di successo e inserimento sono maggiori. E quale sia la situazione lo sanno bene anche i nostri giovani, che a frotte stanno lasciando l’Italia proprio attratti dagli allettanti posti di lavoro che si trovano in Germania, in Gran Bretagna o persino in Belgio, paese piccolo che però ospita le istituzioni europee e tutto il vasto mondo di lobby, fondazioni politiche, centri di ricerca e think tank che ruota loro attorno.
Non possiamo facilmente fare dei migranti una risorsa, in sintesi, perché il sistema produttivo e la stessa Pubblica amministrazione del nostro paese si stanno contraendo. Inoltre, prive come sono di adeguata tutela sindacale, le prestazioni lavorative terziarizzate che si stanno espandendo tendono a remunerare redditi sempre più bassi e incostanti, annichilendo le speranze di promozione sociale ed economica di un ceto medio all’interno del quale è diventato indispensabile svolgere più attività per poter sbarcare il lunario. Nasce da questo fenomeno la rivolta antipolitica che stiamo osservando e quella meno visibile, ma non per questo meno acuta, del capitale umano che stiamo gettando al vento: i laureati che abbiamo formato e che sono costretti a cercare occupazione altrove. La crisi che si è abbattuta sul nostro paese dopo il 2008 e specialmente dopo il 2011 ha solo accelerato il processo, comportando attraverso l’austerità il taglio delle risorse devolute alla ricerca, bloccando il ricambio nel settore pubblico e cancellando letteralmente centinaia di migliaia di opportunità non solo lavorative, ma di carriera. I posti di lavoro eliminati nel solo ambito statale, lo ricordava nel 2014 Giulio Tremonti, equivalgono di fatto alla popolazione attiva di una città come Firenze.
Dovremmo importare imprenditori, forse, cioè persone che non solo vengano a lavorare da noi, ma lo facciano creando occupazione nuova e non meramente sostitutiva. Trasformare un boat people in proprietario d’azienda è però un processo lunghissimo, specialmente in un paese come il nostro, nel quale il credito all’impresa è asfittico, il capitalismo è relazionale, cioè basato sulle reti di amicizie, e prima di poter costruire qualcosa occorre accumulare una bella quantità di denaro. Ciò nonostante, qualcuno ci riesce lo stesso, specialmente nel campo della ristorazione. I cinesi sono un’interessante storia di successo, ma non sono di certo arrivati da noi sui barconi e si sono valsi del supporto di potenti organizzazioni occulte.
Le nostre strade si stanno peraltro riempiendo anche di esercizi più modesti, come le rosticcerie etniche gestite da arabi e turchi che stanno piacevolmente diversificando le nostre diete o i minimarket dei bengalesi, aperti fino a notte fonda, che talvolta integrano le loro entrate offrendo anche un riparo notturno ad altri migranti. Più spesso, però, gli immigrati finiscono per entrare in competizione con i nostri concittadini riguardo ai lavori più pesanti e meno qualificati, quando non finiscono nelle mani della criminalità che li sfrutta come manovalanza. Si vedono tanti stranieri nei cantieri edili, ad esempio, spesso alla mercé di caporali che li reclutano alla giornata in luoghi convenuti delle nostre città. Se ne trovano tanti anche nei McDonald’s, specialmente in quelli del Nord. Purtroppo, se ne incontrano proporzionalmente ancora di più nelle nostre carceri, dove i detenuti immigrati rappresentano ormai circa il 30 per cento del totale: 18.166 su 54.072 complessivi nello scorso giugno, stando ai dati ufficiali pubblicati dal ministero della Giustizia.
E’ difficile non rendersi conto di come circostanze del genere possano contribuire all’innesco di frizioni sociali, se non addirittura di vere e proprie reazioni xenofobe da parte di chi si sente minacciato dalla nuova concorrenza o teme per la propria sicurezza e non comprende per quali ragioni lo stato spenda risorse per l’accoglienza, quando tanti italiani stanno male ed esistono più di quattro milioni di nostri concittadini in condizioni di povertà assolute. Le motivazioni per sovvenzionare il soggiorno dei migranti irregolari che invocano la concessione di una qualche forma di tutela internazionale ci sono e non sono solo esclusivamente umanitarie: uno straniero giunto per mare che venga efficacemente assistito ha, ad esempio, minor necessità di delinquere, anche se alcune situazioni di difficoltà, come la solitudine e le frustrazioni derivanti dallo sradicamento, possono sempre indurlo a cercare scorciatoie nell’illegalità.
L’area di sofferenza tra i nostri concittadini si è comunque talmente allargata che spesso dialogare su questi argomenti si rivela del tutto inutile. Il disagio emerge nei luoghi più impensati. I medici che lavorano al pronto soccorso dei nostri ospedali spesso fronteggiano situazioni imbarazzanti: debbono erogare prestazioni sanitarie agli immigrati privi di documenti di fronte a italiani spesso indigenti, ma incapaci di provarlo, che chiedono perché invece loro siano tenuti al pagamento del ticket. E qui si tocca un’altra nota dolente. In tempi di rigore fiscale e finanziario, l’uomo della strada capisce ma non accetta il fatto che l’accoglienza dei migranti implichi dei costi che sottraggono risorse altrimenti allocabili ai servizi di cui potrebbe beneficiare più facilmente o più a buon mercato. Le spese per l’integrazione finiscono quindi immediatamente nel mirino di chi cerchi facili consensi.
La coperta del bilancio statale è infatti sempre troppo corta, almeno da quando siamo in regime di moneta unica, costretti a finanziare deficit pubblico e debito sovrano attingendo direttamente ai mercati, mentre il surplus commerciale tedesco drena risorse dalla nostra economia, impoverendoci giorno dopo giorno. E intanto la Germania accumula montagne di denaro da destinare agli impieghi più vari, inclusa l’importazione di talenti in fuga dalle zone di guerra. Si tagliano i posti letto negli ospedali, la manutenzione delle scuole è rimessa a chi ne fruisce, ma ai migranti richiedenti tutela internazionale si regalano sim cards e si offre quando possibile ricovero negli alberghi, anche in località turistiche di pregio. Il collegamento è presto fatto anche dai neogenitori più o meno giovani, che scoprono di essere svantaggiati nelle graduatorie per l’accesso agli asili-nido rispetto alle coppie che abbiano almeno un componente straniero. In tempi di vacche grasse, forse la circostanza passerebbe inosservata. Ma questi sono anni di crisi e ristrettezze, contraddistinti da sensibilità e risentimenti esagerati, che costituiscono ormai un target elettorale irresistibile persino per il Movimento 5 stelle, pure a lungo paladino dell’abolizione del reato di immigrazione clandestina, ma oggi interessato a dilatare il suo spazio politico occupando parte dell’area di centrodestra.
Tutti ricorderanno come, durante la recente campagna elettorale per le amministrative della scorsa primavera, il vicepresidente pentastellato della Camera dei deputati, Luigi Di Maio, lo dicesse a chiare lettere: “Gli italiani vengono prima”. A questo quadro assai sconfortante si sottrae forse soltanto il settore dei care-givers, i badanti, divenuto strategico per il funzionamento della vita ordinaria nel nostro paese. La ragione del loro successo è semplicissima: la famiglia italiana non è più quella di mezzo secolo fa e ormai c’è un’intera generazione di ottuagenari che ha lasciato pochi figli e deve ricorrere alla collaborazione degli stranieri. Per molti quarantenni e cinquantenni italiani alle prese con l’invalidità di uno o entrambi i genitori, infatti, l’intervento di un badante è adesso inevitabile, insieme al notevole sacrificio economico che ne deriva.
Assumere un collaboratore domestico implica in effetti un sensibile calo del reddito disponibile, la contrazione delle spese di consumo e quindi l’abbassamento del tenore di vita, mentre le retribuzioni vengono in massima parte sottratte al prodotto interno lordo, in quanto inviate come rimessa ai rispettivi paesi d’origine. Neanche in questo caso, quindi, gli immigrati appaiono come una risorsa per il nostro sviluppo economico futuro, anche se suppliscono egregiamente a una carenza delle istituzioni pubbliche, che non riescono a prendersi cura degli anziani in una nazione che invecchia. Rimane sullo sfondo l’amara constatazione che fare qualche figlio in più e avere un’efficace politica di sostegno alla famiglia probabilmente non guasterebbe. Ma in tempi di teoria gender imperante non è politically correct, mentre giustificare la politica delle porte aperte lo è sempre.
Nel settore dell’assistenza domestica operano con un certo successo le donne dell’est Europa, specialmente ucraine, romene e moldave, che sono state tra le grandi beneficiarie delle maxisanatorie del passato.
Ma sono i filippini, oltre 113 mila in Italia, quelli che paiono ispirare maggiore fiducia agli italiani, forse perché sostenuti dalla Chiesa cattolica, ben referenziati e dotati anche loro di una comunità molto organizzata, che dispone persino di un proprio misterioso servizio di protezione. Sono spesso in possesso di diplomi e padroneggiano a meraviglia la lingua inglese. Alcuni, specialmente i più giovani tra loro, vorrebbero peraltro crescere professionalmente e con il tempo spostarsi verso impieghi più remunerativi e appaganti all’interno della nostra società. Ma si scontrano inesorabilmente con le stesse difficoltà di accesso al mondo del lavoro che incontrano i coetanei italiani. E rimangono al palo, spesso accarezzando anche loro l’idea di andarsene prima o poi da qui.
Una questione più profonda riguarda poi le aspettative di chi arriva: uomini e donne che noi vediamo essenzialmente come nostri dipendenti e delle cui preoccupazioni e aspirazioni poco sappiamo e ancor meno ci importa. Si tratta invece di persone da rispettare, che portano presso di noi le proprie convinzioni e culture, per le quali vorrebbero ottenere cittadinanza, ponendo la società italiana di fronte alla sfida di un pluralismo più complesso di quello costruito faticosamente finora. Perché non si tratta più soltanto di far coesistere in un unico paese uomini e donne che avvertono ancora le diversità dovute ai propri contesti locali d’origine, ma anche di adattarsi alla convivenza con usi, credenze e costumi molto diversi da quelli prevalenti in Italia. Un esempio valga per tutti: un lavoratore musulmano non sarà mai in quanto tale né meno né più produttivo di uno che osservi i precetti religiosi di un’altra confessione, ma durante il mese sacro del Ramadan non potrà lavorare seguendo gli stessi ritmi e orari degli altri e se ne dovrà tenere conto. Anche le diete delle mense aziendali dovranno essere riconfigurate per permettere una più ampia libertà di scelta ed evitare involontarie quanto inutili provocazioni.
L’arrivo nel nostro paese degli stranieri implica quindi necessariamente una doppia risocializzazione: che faccia conoscere noi a loro e loro a noi. Un prezzo spesso trascurato dalle analisi dei costi e benefici recati dall’immigrazione, forse perché automaticamente scaricato sulle spalle dello stato, come se poi non fossero le tasse dei contribuenti, in ultima analisi, a finanziarne le spese. E’ questo l’aspetto più delicato di tutto il processo di integrazione, come provano i numerosi fallimenti riportati dai paesi che prima di noi vi si sono misurati e si trovano oggi alle prese con imprevisti problemi di ordine pubblico, come quelli emersi in Svezia e in Germania, o di sicurezza nazionale, come ci ha ricordato la strage di Nizza.
Ci sono argini, rappresentati dalle conquiste civili dell’ultimo secolo, che non dovranno essere valicati, pena lo snaturamento delle nostre società, anche se qualche nostro ospite potrà vivere questa circostanza come un’inaccettabile imposizione, covando risentimenti più o meno pronunciati, che sono la premessa della reazione identitaria e talvolta anche del terrorismo. La conclusione da trarre pare chiara: le persone non sono merci, l’integrazione non è uno scherzo, gli equilibri sociali sono fragili e risentono criticamente dei numeri e della maggiore o minore rapidità delle loro variazioni. E sarà necessaria una grande prudenza. Il melting pot non è infatti il principio organizzatore intorno al quale si sono costituiti gli stati europei. E’ piuttosto vero il contrario, avendo estesamente operato in Europa una logica opposta di autoaffermazione nazionale e pulizia etno-confessionale, che gli Stati Uniti hanno applicato solo ai danni dei pellerossa.
Ecco perché non possiamo pensare realisticamente di ricostruire il processo di sviluppo del nostro paese scommettendo sull’immigrazione, fermo restando che esisteranno sempre circostanze in cui non si potrà fare a meno di soccorrere chi scappa da guerre e persecuzioni. Occorrerà in qualche modo rallentare il flusso degli arrivi. Una cosa è il sentimento umanitario, infatti, altro è credere seriamente che i boat people siano la nostra salvezza. Le cifre fatte più volte negli ultimi anni a proposito del nostro ipotetico fabbisogno di manodopera estera non sono compatibili né con la sopravvivenza della nostra fabbrica sociale né con il sogno egoista di far pagare ai “nuovi italiani” la nostra sanità e le nostre pensioni.
Germano Dottori è cultore di Studi strategici alla Luiss Guido Carli di Roma e consigliere redazionale della rivista Limes.