Lo “choc cinese”
Roma. La Cina è da sempre una delle ossessioni di Donald Trump. Il candidato repubblicano alla Casa Bianca in più di un’occasione ha detto che i rapporti commerciali tra Washington e Pechino sono sbilanciati, che l’invasione dei beni a basso costo cinesi ha devastato il settore manifatturiero americano, ed è arrivato a denunciare che la Cina “sta stuprando il nostro paese”. Buona parte degli economisti liberali e conservatori ha sminuito queste sparate come propaganda protezionista: non è vero che il commercio con la Cina è sbilanciato, dicevano; per ogni posto di lavoro perso, gli americani ottengono benefici di diverso tipo, come appunto un flusso costante di beni a basso costo; benefici e svantaggi si compensano e alla fine arricchiscono il paese. Questa vulgata però non ha mai convinto tutti, e non solo economisti non allineati come Peter Navarro, consigliere del biondo candidato. Alla fine, ieri, è intervenuto il Wall Street Journal, giornale di tradizionali simpatie repubbicane ma mai tenero con The Donald, che con una lunga inchiesta sugli effetti dello “choc cinese” sull’industria americana ha dovuto alla fine ammetterlo: almeno su questo, almeno in parte, Trump ha ragione. Al contrario di quanto avvenuto con il Giappone, con le “tigri asiatiche”, o con il commercio con il Messico, l’onda d’urto delle importazioni dalla Cina ha distrutto una parte fondamentale del tessuto produttivo americano, un po’ per ragioni fisiologiche e un po’ per miopie politiche. E tra le fasce sociali colpite dalla Cina, il sostegno a Trump è assoluto. Il Wall Street Journal parte da Hickory, città della Carolina del nord sede di quello che era il più grande distretto di produzione di mobili al mondo. Qui, fino agli anni Novanta, la produzione sembrava al riparo dagli sconquassi della globalizzazione e la disoccupazione era sotto al 2 per cento.
Ma in quegli anni l’ascesa della Cina come potenza esportatrice ha man mano messo fuori mercato tutte le aziende locali, e nel 2010 il tasso di disoccupazione era arrivato al 15 per cento. Un boom di importazioni di questa portata non si era mai visto in ere recenti nell’economia americana, e ha scosso le convinzioni di molti economisti. Il libero commercio crea da sempre vincitori e perdenti, ma a Hickory e in centinaia di altre città americane i perdenti sono stati così tanti che alla fine è difficile scommettere sulla positività del risultato complessivo. L’economista Gordon Hanson ha detto al Journal che la competizione cinese è responsabile di 2,4 milioni di posti di lavoro persi in America tra il 1999 e il 2001. I posti di lavoro totali creati nello stesso periodo sono 2,1 milioni: il bilancio è negativo. Incoraggiare il commercio con la Cina senza proteggere i propri lavoratori è stato “un errore catastrofico”, ha detto. Trump raccoglie i cocci di questa catastrofe. Fin dal 2000, secondo alcuni studi, nelle zone più colpite dalla concorrenza cinese la politica si è polarizzata e si è fatto strada un senso di avversione fortissimo alla globalizzazione. Il risultato è che alle primarie repubblicane Trump ha stravinto in 89 delle 100 contee più interessate dal fenomeno. In quelle democratiche, Bernie Sanders ha vinto in 64. Il riflusso anti globalizzazione, frutto non di un fallimento del mercato ma della miopia politica, influenza così tutto il quadro politico. Ancora giovedì, in un discorso in Michigan, la democratica Clinton ribadiva la sua opposizione al Tpp, il trattato di libero scambio del Pacifico.
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