Tra virgolette - Wall Street Journal
L'antisemitismo, malattia (infantile e senile) del mondo arabo, provoca danni non solo sul campo di gioco
Venerdì, alle Olimpiadi di Rio, il judoka israeliano Or Sasson ha sconfitto l’egiziano Islam El Shehaby, il quale, dopo l’incontro, ha ignorato la mano tesa del suo avversario, guadagnandosi i fischi del pubblico. Si è venuto a sapere che El Shehaby aveva ricevuto pressioni da gruppi anti-israeliani perchè si ritirasse prima dell’incontro. Dopo molte polemiche con il Cio, la federazione egiziana di judo ha deciso di rispedire in patria il proprio atleta. In un editoriale apparso sul Wall Street Journal, Bret Stephens ha spiegato che questo gesto simboleggia l’odio cieco per gli ebrei e per Israele che pervade il mondo arabo, il quale si trova in declino anche a causa di questo atteggiamento. Stephens osserva come tale aspetto della realtà mediorientale sia spesso taciuto in analisi accademiche e articoli giornalistici. Rimane il fatto che, continua Stephens, negli ultimi 70 anni il mondo arabo, “si è liberato della sua popolazione ebraica, circa 900.000 persone, senza smettere di odiarla. Con il passare del tempo questo si è rivelato disastroso: una combinazione di capitale umano perso, guerre esageratamente costose, ossessioni ideologiche mal indirizzate e un panorama intellettuale funestato da teorie del complotto e dalla ricerca costante di un capro espiatorio. I problemi del mondo arabo sono i problemi della mentalità araba, e il nome di quei problemi è l’antisemitismo.”
La relazione tra stagnazione sociale e politica e antisemitismo non è una novità recente. Nel 2005 lo storico Paul Johnson, in una ricerca per Commentary, ne dava ampi esempi. La Spagna espulse gli ebrei nel 1492, “privando la madrepatria e le colonie di una classe sociale già nota per le sue capacità finanziarie”. Nella Russia zarista le leggi antisemitiche causarono migrazioni di massa degli ebrei e “un enorme incremento della corruzione nella Pubblica amministrazione”. La Germania nazista avrebbe potuto vincere la corsa allo sviluppo di armi atomiche, “se Hitler non avesse mandato in esilio negli Stati Uniti Albert Einstein, Leo Szilard, Enrico Fermi e Edward Teller”. Questi fenomeni si sono ripetuti nel mondo arabo e, contrariamente all’immaginario popolare, precedettero la creazione dello stato di Israele. “Nel 1929 vi furono sanguinosi pogrom in Palestina, replicati in Iraq nel 1941 e in Libano nel 1945. Non è accurato accusare Gerusalemme di aizzare l’antisemitismo rifiutando di cedere territori in cambio di pace.
Tra gli egiziani l’odio per Israele si affievolì appena dopo che Menechem Begin restituì il Sinai ad Anwar Sadat. Tra i palestinesi l’antisemitismo aumentò notevolmente durante gli anni del processo di pace di Oslo”. Johnson aveva definito l’antisemitismo come una malattia “altamente infettiva, endemica in certe località e società, che non rimane confinata tra le persone più deboli o meno istruite”. L’antisemitismo potrà anche essere irrazionale, ma la sua efficacia sta nel trasformare l’irrazionalità personale e istintiva, offrendole uno sbocco sistematico e politico, concludeva Johnson: “Per chi odia gli ebrei ogni crimine ha il medesimo colpevole e ciascun problema ha la stessa soluzione”. Stephens nota come sia facile cedere all’antisemitismo, semplificando la propria visione del mondo, ma condannandosi a un permanente oscurantismo.
A riprova di ciò, il commentatore elenca semplici fatti: “Non esiste alcuna grande università nel mondo arabo, non vi è una seria comunità scientifica locale e la produzione letteraria è minima. Nel 2015 l’ufficio brevetti degli Stati Uniti ha registrato 3.804 brevetti da Israele, e solo 364 dall’Arabia Saudita, 56 dagli Emirati Arabi Uniti e 30 dall’Egitto”. Nonostante Israele convogli acqua in Giordania per aiutare lo stato arabo e offra intelligence all’Egitto per combattere l’Isis nel Sinai, osserva Stephens, la popolazione araba non se ne rende conto, e l’unica immagine che ha di Israele è di “soldati israeliani in tenuta antisommossa che malmenano un palestinese”. La dolorosa realtà, nota Stephens, è che “le nazioni di successo provano a emulare i propri i propri vicini. Nel mondo arabo, invece, generazione dopo generazione, si è insegnato a odiare i propri vicini”.
Vi è comunque qualche speranza di cambiamento. Negli ultimi cinque anni il mondo arabo è stato costretto a confrontarsi con i propri fallimenti senza poter addossare alcuna colpa a Israele. Questo però non basta conclude Stephens: “Finché un atleta arabo non può rispondere alla cortesia di una stretta di mano da parte di un suo omologo israeliano, la malattia della mentalità araba e la sfortuna del suo mondo continueranno. Per Israele è un peccato. Per gli arabi è una calamità. Chi odia soffrirà sempre più di chi è odiato”.