Cosa cambierebbe per l'Italia con la politica estera di Trump
L’eventualità di una vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane del prossimo 8 novembre, al momento non particolarmente probabile, sembra essere vissuta con grande apprensione dall’opinione pubblica italiana ed europea. In realtà, si tratta di uno stato d’animo piuttosto ingiustificato, che non riflette una valutazione obiettiva della posta in palio, quanto piuttosto pregiudizi ideologici irrilevanti dal punto di vista dei nostri interessi nazionali. Certo, occorre ammettere che il magnate newyorkese non fa molto per rendersi simpatico. Ma preoccuparsi per esempio di ciò che il presidente Trump potrebbe fare alla frontiera con il Messico non ha per noi molto senso. Ciò che dovrebbe interessarci maggiormente sono invece le grandi opzioni di politica estera che i due rivali hanno messo in campo. Sotto questo profilo, la scelta che gli elettori statunitensi saranno chiamati a fare è forse la più importante dagli anni ottanta, soprattutto per le conseguenze che potrà dispiegare nel resto del mondo. Ed è di questo che dovremmo occuparci.
L’America è infatti a un bivio. Da un lato, il candidato Trump propone un ambizioso disegno di stabilizzazione delle periferie dell’Eurasia da raggiungere tramite un grande accordo con la Russia: ciò che appunto gli costa l’aperta ostilità dell’establishment repubblicano e la fuga verso la candidata democratica del grosso dei neoconservatori a suo tempo arruolati da Bush junior. Dall’altro, Hillary rilancia l’interventismo liberal che condusse gli Stati Uniti a bombardare la Serbia e lei stessa a promuovere la campagna sfociata nel 2011 nell’attacco alla Libia del colonnello Gheddafi: un fiasco che lo stesso Obama le addebita. Fino alle convenzioni nazionali dei due maggiori partiti, svoltesi nel mese scorso, Trump ha criticato il Presidente in carica per esser stato eccessivamente aggressivo, mentre la Clinton gli rimproverava all’opposto la grande riluttanza a impiegare lo strumento militare. Nel suo più importante discorso dedicato alla politica estera, risalente all’aprile scorso, Trump ha inoltre ribadito che l’uso della forza deve rimanere un’opzione di ultima istanza.
C’è invece ragione di ritenere che Hillary la pensi molto diversamente. E’ quindi paradossale che pacifisti e progressisti l’appoggino, forse sulla base di vecchi stereotipi. Non è tutto: il candidato Trump progetta anche una revisione profonda della strategia atlantica dalla quale l’Italia potrebbe trarre grandi benefici. Si tratterebbe infatti di riorientarne le priorità verso sud, trasformandola in un più efficace strumento per la lotta al jihadismo. A Hillary interessano invece i diritti umani, di cui quelli di genere costituirebbero parte essenziale: proprio per questo, malgrado gli ingenti finanziamenti sauditi alla Fondazione Clinton, una sua presidenza potrebbe implicare l’accentuazione dei contrasti con Riyahd, preparando nuove convulsioni in Medio Oriente. Aumenterebbe inoltre di sicuro la pressione sulla Russia. Le cose forse si metterebbero male persino per Erdogan. I Clinton sono infatti molto legati a Gulen, rivale del Sultano, mentre Trump ha fatto capire che quanto accade attualmente dentro la Turchia non dovrebbe importare più di tanto agli americani.
Al fondo, comunque, l’elemento più interessante dell’approccio del tycoon è un altro: l’allargamento degli ambiti di esercizio della nostra sovranità nazionale che deriverebbe da un suo possibile successo. L’isolazionismo di Trump, infatti, ci responsabilizzerebbe e libererebbe al tempo stesso, permettendoci di crescere geopoliticamente. Di Hillary dovremmo invece ricordare l’impulso dato allo spionaggio sui leader esteri, documentato dai cablogrammi pubblicati da Wikileaks nel 2010. La maggiore attenzione verso il Mediterraneo e la normalizzazione dei rapporti con Mosca sono obiettivi dell’Italia che Donald ci aiuterebbe a perseguire. Mentre la Clinton frapporrebbe quasi certamente degli ostacoli. Questo è ciò che conta davvero.