A Ventotene Renzi, Merkel e Hollande devono superare il solito tran tran brussellese
La scelta di Ventotene per il vertice a tre che vedrà riuniti lunedì prossimo François Hollande, Angela Merkel e Matteo Renzi può avere un solo significato: ribadire insieme la volontà di difendere l'unità politica dell’Europa e di imprimere una svolta nelle politiche che sono state fin qui seguite dall’Unione europea. Dopo il dovuto e non rituale omaggio ad Altiero Spinelli e agli altri autori del Manifesto di Ventotene, i tre capi di stato e di governo si confronteranno sui temi del dopo Brexit, della politica economica comune e degli interventi finalizzati alla crescita, della sicurezza e della difesa comune.
Scendendo dai cieli dell'Utopia al terreno duro e difficile della realtà metteranno a confronto le rispettive e diverse preoccupazioni: sulla Brexit Hollande, che ha la spina nel fianco della crescita elettorale della Le Pen, non vuole fare sconti eccessivi alla Gran Bretagna né sui tempi né sui costi dell’uscita dall’Ue anche per non dare a nessuno la sensazione che altre Exit siano indolori per le economie dei rispettivi paesi e che si possa continuare a usufruire dei vantaggi del mercato comune senza partecipare ai costi e ai vincoli della Unione. Dovrà però su questo confrontarsi con la Merkel che spera invece di attenuare il trauma della separazione almeno fino al momento delle elezioni tedesche. Sulla crescita, dietro l’appello alla “necessità di superare la religione della austerità”, c’è per Renzi la necessità e l’urgenza di ottenere in primo luogo dalla Germania nuove concessioni in materia di flessibilità dopo i deludenti risultati del nostro prodotto interno lordo. Ugualmente difficile è immaginare un salto di qualità sui temi della sicurezza e della difesa, territori rimasti finora nella gelosa competenza degli stati nazionali, da realizzare attraverso prime e prudenti forme di sperimentazione. Infine è tutta da verificare la disponibilità tedesca a mettere in moto iniziative di politica economica comune attraverso un piano di investimenti pubblici dell’Ue. Finora infatti il piano Juncker è rimasto allo stato di progetto.
Forse Hollande, Merkel e Renzi, prima ancora di discutere i temi che fanno parte dell’agenda, dovrebbero affrontare alcune questioni pregiudiziali. Quale deve essere la risposta di alcuni grandi paesi europei come i tre stati fondatori di fronte alle ondate populiste e nazionaliste che spingono alla dissoluzione dell’Ue e alla balcanizzazione dell’Europa? Finora a queste spinte si è data una risposta di paura e di debolezza, quando non di sostanziale condivisione, che ha avuto l’effetto di rafforzarle anziché indebolirle. Forse, come in tutti i momenti di crisi, è opportuno delineare una chiara alternativa alla disintegrazione dell’Ue e stabilire una linea, un argine che non possa essere superato. La lotta politica allora può essere vinta o perduta ma avverrà in condizioni di chiarezza e sarà evidente a tutti ciò a cui si rinuncia e i problemi che ne deriveranno.
La seconda questione, strettamente legata alla prima, riguarda la necessità di prendere atto del fallimento delle politiche di coordinamento degli stati membri attraverso la quale si è preteso di far passare ogni progetto e ipotesi di ulteriore unità e integrazione per intraprendere la strada, su alcune questioni rilevanti o addirittura decisive, della “cooperazione rafforzata” tra gli stati che le condividono, senza attendere il consenso unanime di tutti i 27 membri dell’Unione, realizzando nella pratica quell’unione “a due velocità” di cui l’Eurozona è stato il primo significativo esempio.
Sono scelte difficili, costose e impegnative. Ma nei momenti di crisi come è quello che viviamo, occorrono donne e uomini di governo all’altezza delle loro responsabilità, donne e uomini di governo che abbiano la capacità e il coraggio, nella difesa di alcuni valori comuni, di correre il rischio di essere impopolari per non divenire, come diceva Pannella, antipopolari.
C’è chi sostiene che razionalità e ragionevolezza non bastano a vincere il malessere indotto dall’insicurezza, il senso di rivolta che ne deriva, la paura per il futuro. La considerazione che la balcanizzazione dell’Europa condannerebbe il nostro continente all’irrilevanza e all’impoverimento e che la spinta ovunque nel mondo ai protezionismi non diminuirebbe ma aumenterebbe la crisi, è nondimeno non solo ragionevole ma vera. Ripercorreremmo altrimenti la strada catastrofica degli anni 30 del secolo scorso.