In Libia l'Isis resiste
Roma. La battaglia per riprendere Sirte è agli sgoccioli, la città sulla costa dirimpetto alla Sicilia è quasi per intero libera dallo Stato islamico, ma questa vittoria militare non sarà la soluzione ai problemi della Libia: la crisi politica che spacca in due il paese e l’infestazione dello Stato islamico, che non è stata debellata. Fonti del Foglio a Sirte dicono che ci sono gruppi di combattimento dello Stato islamico vicino alla città ma “fuori dall’assedio”. Non sono all’interno dei distretti centrali che ancora devono cadere, ma attorno a Sirte, soprattutto a sud e sud-ovest, in direzione della città di Bani Walid, che le fonti descrivono come un luogo con una presenza forte dello Stato islamico.
Bani Walid non è una nuova Sirte, perché non c’è un controllo aperto ed esplicito da parte del gruppo né la pretesa di governare. E’ piuttosto una nuova Sabratha, come la città a ovest di Tripoli dove lo Stato islamico manteneva un basso profilo per non farsi notare e continuava le sue attività operative. Tra queste, i traffici verso la Tunisia e i sequestri, incluso quello a luglio 2015 di quattro tecnici italiani. A febbraio un bombardamento americano a sorpresa ha colpito una villa a Sabratha in cui vivevano più di quaranta combattenti del gruppo che stavano preparando un attacco oltreconfine in Tunisia. Ora a Bani Walid lo Stato islamico è così sicuro che è già tornato all’attacco. Alessio Romenzi, fotografo freelance al lavoro a Sirte in questi giorni, conferma al Foglio che in almeno due casi le autobomba che hanno colpito vicino a Sirte venivano da fuori, e non dall’interno della zona assediata, che è sigillata e cadrà nel giro di pochi giorni.
A tenere d’occhio i canali di propaganda dello Stato islamico, assieme con il ricercatore ed esperto di islam politico Marco Arnaboldi, c’è la conferma che il gruppo in Libia non si è estinto con la battaglia di Sirte. All’inizio di agosto, sono circolate su internet le foto informali del matrimonio dell’emiro dello Stato islamico a Bengasi – informali vuol dire non autorizzate da un canale ufficiale, quelli con il marchio Wilayat Tripoli o Wilayat Barqa. Nelle foto oltre all’emiro con il volto oscurato si vede cibo per circa quaranta piatti, ma è verosimile che le persone fossero di più, perché al desco arabo il cibo si condivide dallo stesso piatto e molti non avranno potuto partecipare. L’emiro di Bengasi si chiama Abu Mussab al Farouq e ieri ha fatto circolare questo messaggio, tradotto da Arnaboldi: “I nostri capi nella provincia di Tripoli dicono di Sirte che è ridotta come il Rub al Khali, nel senso che il suo interno è morto, e il suo esterno è vivo”. Rub al Khali è il secondo deserto di sabbia più vasto al mondo, nel sud della penisola araba. Al Farouq rivela quindi che ci sono ancora “nostri capi” nella provincia di Tripoli, fuori da Sirte, e che la situazione nella città è come nel famoso deserto: dentro c’è la morte, ma fuori la vita è rigogliosa.
Così se nei giorni scorsi alcuni capi storici come il libico Walid al Farjani sono morti a Sirte, qualcun altro tra i più pericolosi è fuori. Per esempio Moez Fezzani, conosciuto anche come Abu Nasim, comandante del battaglione al Battar – la colonna libica di combattenti dello Stato islamico in Siria. Le milizie libiche hanno smentito la notizia improbabile del suo arresto circolata la settimana scorsa. Secondo il sito libico al Marsad, Fezzani ha giurato fedeltà allo Stato islamico nel dicembre 2014 a Sirte, quindi potrebbe averlo fatto davanti al primo comandante iracheno del gruppo, Abul Mughirah al Qahtani, che era in città nello stesso periodo. Fezzani era poi tornato a Sirte dopo un raid fallito in Tunisia a marzo 2016 e da allora ha fatto perdere le sue tracce.
Insomma, il gruppo ha fatto in tempo ad adattarsi alla campagna militare che doveva spazzarlo via, non si è fatto intrappolare per intero dentro Sirte e non si è estinto. Piuttosto, sperimenta in Libia quella fase di perdita del controllo sul territorio e ritorno alla guerriglia che presto o tardi proverà anche in Siria e in Iraq, dove ancora mantiene il controllo su alcune città. Vale la pena notare che ieri a Bengasi lo Stato islamico ha rivendicato l’uccisione di quattro soldati del generale Khalifa Haftar. Per quanto riguarda la crisi politica che spacca il paese in due: ieri il Parlamento della Libia dell’est (città più importanti: Tobruk e Bengasi) ha votato sulla legittimità del governo di Accordo nazionale che sta a ovest (città più importanti: Tripoli e Misurata). Si tratta di un voto cruciale, perché se il risultato fosse “sì” la Libia cesserebbe di essere un paese diviso e tornerebbe una nazione unita sotto un singolo governo, quello di Tripoli con a capo il primo ministro designato Fayez al Serraj. Sarebbe anche un successo per il governo italiano, che assieme a governo americano e Nazioni Unite sponsorizza Tripoli.
Per il complicato meccanismo dei negoziati e accontentare un po’ tutti, il voto finale sull’unità nazionale è stato affidato al governo dell’est, che così sparirebbe e per ora non ne ha alcuna intenzione. In particolare, non si è ancora trovata una soluzione per il collocamento del generale Khalifa Haftar, che aspira a un ruolo di comando e non a diventare subordinato di Serraj. Haftar ha guidato i suoi uomini nella campagna per liberare dallo Stato islamico la città di Bengasi (non tutta: quasi) grazie anche alla presenza di forze speciali francesi, ma i rivali di Tripoli hanno liberato la città di Sirte che dello Stato islamico era la capitale (manca poco) e l’hanno fatto anche grazie ai bombardamenti americani. Pareggio, dunque, e per ora zero speranze di unificazione. La campagna per liberare Sirte è alle battute finali. Domenica le forze di Misurata che combattono per conto del governo di Tripoli – la politica libica costringe a queste definizioni chilometriche – hanno preso la moschea Rabat, un luogo di alto valore simbolico. Lì nell’estate 2013 un predicatore del Bahrein che ancora non si era dichiarato in modo esplicitito a favore dello Stato islamico, Turki al Binali, tenne un ciclo di lezioni religiose che molti considerano lo sbarco ideologico del gruppo estremista in Libia.
L'editoriale del direttore