Gli slogan europeisti non bastano per guidare il mondo post americano
La campagna elettorale per la corsa alla Casa Bianca affronta il rush finale. L’8 novembre è dietro l’angolo, e in molti Stati sarà possibile votare già in ottobre per corrispondenza. In questi ultimi giorni ha preso vigore il dibattito sulle questioni di politica estera. Nel discorso del 15 agosto in Ohio il candidato repubblicano ha esposto ufficialmente la sua weltanschauung, per quanto questo termine possa apparire forse eccessivo se accostato a un individuo che, prima di questo discorso, aveva fatto dell’insulto e della facile polemica in salsa populista la cifra della sua “grammatica” politica. Eppure, l’interesse montato attorno all’illustrazione delle linee programmatiche di politica estera di Trump denota come negli States l’interesse per gli affari internazionali abbia un ruolo preponderante nel dibattito pubblico e soprattutto come riesca a influenzare le intenzioni di voto. Negli Stati Uniti, infatti, la sicurezza nazionale e la politica estera al servizio dell’interesse nazionale dominano da sempre il panorama dei media nazionali.
Il candidato del Gop rischia di perdere le elezioni non tanto per le sue ripetute uscite politicamente scorrette, quanto per i presunti legami che vorrebbe intraprendere con la Russia di Putin (affermazioni però ammorbidite durante il discorso del 15 agosto), per un suo diverso approccio sulla Nato, per la volontà di ritirare le truppe dal medio oriente e la sua aperta ostilità all’islam e, più in generale, per la sua percepita incapacità di comprendere e gestire questioni complesse come quelle legate agli affari internazionali. Trump sembra essersi finalmente reso conto di questo suo limite e in effetti il suo discorso del 15 agosto è stato più approfondito e articolato di quanto molti media hanno riferito e gli ha consentito di recuperare un po’di terreno nei consensi. E’ lontano il tempo in cui, solo qualche settimana fa, si parlava di un suo possibile ritiro: al momento giusto, il tycoon ha capito che è fondamentale farsi assistere dagli esperti giusti. Anche Reagan, del resto, era partito in un modo non molto diverso.
L’inesperienza e l’animosità verbale di Trump potrebbero non essere sufficienti a propiziare una vittoria agevole di Hillary Clinton, la quale, minacciata dallo scandalo delle email che pende come una spada di Damocle sulla solidità della sua nomination e dalle donazioni fatte da paesi ed istituzioni controversi alla Fondazione Clinton, è ora chiamata a rispondere nel merito alle idee espresse dal suo rivale. Del resto, negli States la storia insegna che a prevalere sono i contenuti rispetto agli scandali di contorno. Se Silvio Berlusconi si fosse trovato a Washington non sarebbe stato messo alla gogna per le sue presunte avventure boccaccesche ma piuttosto per aver rischiato di mettere in pericolo la sicurezza nazionale consentendo un accesso facile e ravvicinato alla sua persona a individui che non avevano i minimi requisiti di affidabilità. Per converso, ricordiamo che nel caso di Bill Clinton e della sua relazione con Monica Lewinsky il punto centrale della questione non fu l’infedeltà dell’ex Presidente alla propria moglie e attuale candidata, quanto il fatto di aver mentito in una circostanza ufficiale sui fatti accaduti.
Anche in questa corsa alle presidenziali il giudizio degli elettori sulle offerte programmatiche che Trump e Clinton presenteranno in politica estera e sulle conseguenze dirette che esse potranno avere sulle loro persone sarà fondamentale. Due visioni che, al netto delle tinte decisamente più forti adottate dal miliardario newyorchese, non sembrano discostarsi poi di molto. Nelle loro linee di fondo esse sembrano suggerire un progressivo disimpegno degli Stati Uniti dal ruolo – che sembrava ormai tradizionale e scontato – di poliziotto globale, garante di un ordine liberal-democratico che aveva avuto il suo apogeo durante la presidenza di Bill Clinton. Se Donald Trump propone un deciso ridimensionamento della proiezione internazionale degli States, basato sulla necessità di contrastare il terrorismo islamico e di difendere innanzitutto il territorio e i cittadini americani (da qui la riedizione dello slogan della campagna elettorale, applicato alla politica estera, in “make America safe again”), Hillary si è trovata costretta ad inseguire Trump sul piano del disengagement proponendo ricette che non hanno un sapore radicalmente diverso, soprattutto in tema di commercio internazionale e investimenti dove non ha fatto mistero di voler bloccare l’iter per l’entrata in vigore della Trans-Pacific Partnership (Tpp) e quello per concludere il negoziato della Transatlantic Trade and Investment Partnership (T-Tip) con la Ue (un “pegno” da pagare all’ala più intransigente dello sconfitto delle primarie, Bernie Sanders).
Del resto, a ben vedere la rinuncia al ruolo di garante e tutore dell’ordine e della sicurezza internazionale è un processo che non inizia in questa campagna elettorale, ma che è già stato messo parzialmente in pratica da Obama, la cui volontà di non mettere direttamente i “boots on the ground” era stata interpretata dai più come titubanza e indecisione. Aspettiamoci dunque due mesi nei quali si andrà sempre più a fondo dei contenuti e si darà attingerà abbondantemente nel repertorio di accuse e contraccuse con prevedibili colpi di scena mediatici. Niente di meglio forse per la più esperta Clinton, chiamata a rintuzzare nel merito gli attacchi di Trump con professionalità. Il cammino per Hillary sarà tutt’altro che facile e scontato, dato che la candidata democratica dovrà guardarsi non solo da Trump ma anche dai candidati repubblicani al Congresso che sembrano – apparentemente – prendere le distanze dal fulvo magnate. Che siano solo mosse tattiche, pensate per prendere più voti da quella parte dell’elettorato democratico che vede la Clinton come il fumo negli occhi? Anche se Trump dovesse perdere, la possibilità che il Congresso sia a maggioranza repubblicana non è da sottovalutare.
Tornando sulla nostra sponda dell’Atlantico, queste dinamiche del dibattito politico statunitense ci suggeriscono d’altro canto di ripensare come italiani ed europei il nostro ruolo nel mondo. All’indomani del vertice di Ventotene, dove l’anfitrione Matteo Renzi ha accolto Angela Merkel e François Hollande in un ennesimo tentativo di rilanciare il progetto politico dell’integrazione europea, alcune riflessioni si possono ricavare partendo da un confronto tra l’Italia e gli Stati Uniti. Se in questi ultimi gli affari internazionali sono centrali nel dibattito pubblico, lo stesso purtroppo non si può dire per il nostro Paese. Si tratta anche di un effetto collaterale della scarsità di visione della nostra politica estera, troppo spesso schiacciata su un orizzonte temporale di breve periodo. Vertici come quello di ieri, nel quale sono state riproposte dichiarazioni belle e condivisibili, non dovrebbero limitarsi a temi pur importanti quali la flessibilità di bilancio e la gestione dei flussi migratori, ma allargarsi a una politica estera realmente comune che contempli anche elementi chiave quali l’integrazione regionale sul piano della difesa, della sicurezza e della cooperazione internazionale. In questo senso, è giusto che il “direttorio” in nuce tra Roma, Parigi e Berlino si irrobustisca e che trascini tutti gli altri Paesi Ue che ne desiderino far parte. Del resto, gli avvenimenti internazionali degli ultimi anni hanno dimostrato che l’asse franco-tedesco in un mondo globale è ormai superato. Spetta dunque all’Italia reclamare e meritare un posto che, per una volta, sia da leader e non da follower, per usare un linguaggio da social network.
A questo proposito Renzi, per porsi come un vero leader europeo, non dovrebbe limitarsi a lanciare messaggi mediatici per esporre la sua visione di politica estera, ma adottare scelte più elaborate di medio-lungo periodo che richiedono anche una buona dose di coraggio. Sfortunatamente, anche nell’opposto “cantiere” del centrodestra l’interesse per gli affari internazionali non è preponderante: Stefano Parisi, che ha lavorato come capo della Segreteria tecnica alla Farnesina con Gianni De Michelis, uno dei più brillanti e dinamici ministri degli Esteri dal dopoguerra, sembra stia ora pensando solo a difendersi dagli avversari interni, non avendo ancora portato la sua “formula milanese” di condivisione al livello dell’analisi della politica estera.
Non sappiamo dire oggi chi eleggeranno gli americani come presidente, e a seconda del vincitore come questa scelta influenzerà il mondo intero.
Sappiamo però che ci stiamo avviando verso una fase storica in cui gli Stati Uniti saranno più occupati a difendersi internamente e a mantenere il periodo di crescita economica che Obama ha nonostante tutto garantito e avranno meno voglia di garantire l’ordine internazionale. L’Italia non dovrà farsi cogliere impreparata: solo un’Europa forte ce lo potrà consentire. Speriamo che da Ventotene nasca finalmente la volontà di rafforzare l’integrazione europea affiancando alle indifferibili politiche fiscale, finanziaria e monetaria, anche quelle per la difesa, la sicurezza, e per la proiezione di una visione del mondo davvero condivisa e di ampio respiro.