Missione “Scudo dell'Eufrate”
Erdogan manda i carri armati in Siria, Obama dice ai curdi: “Indietro!”
Roma. In occidente il governo turco è stato spesso etichettato come “il padrino dell’Isis”, ma da ieri mattina la Turchia è il primo paese della Nato a mettere in via ufficiale i “boots on the ground” contro lo Stato islamico in Siria “e altri gruppi terroristici” con l’operazione “Scudo dell’Eufrate” per liberare in nove ore la città di Jarablus vicino al confine. In via ufficiale, vale la pena ripetere, perché altri governi hanno già schierato militari sul terreno siriano: le forze speciali americane sono embedded con i curdi a nord-est e le forze speciali inglesi aiutano con discrezione la resistenza anti Stato islamico nel deserto a sud-est. Al di fuori della Nato, poi, truppe russe e iraniane appoggiano il presidente siriano Bashar el Assad.
L’offensiva di terra “Scudo dell’Eufrate” è un’operazione mista sia per i partecipanti sia per gli scopi e arriva quaranta giorni dopo un tentato golpe militare che ha lasciato disarticolato l’esercito della Turchia, il secondo più grande della Nato. Oltre ai corazzati e alle forze speciali turche ci sono anche consiglieri militari americani e il grosso delle truppe è formato da siriani che appartengono a quattro gruppi dell’opposizione anti Assad: Failaq al Sham (“La legione del Levante”), Sultan Murad, Jabha al Shamiya e Ahrar al Sham. Nei giorni scorsi un numero non specificato di combattenti di questi gruppi – c’è chi dice cinquemila – si è radunato in una base vicino Qarqamish, dirimpetto Jarablus ma in territorio turco. Due giorni fa, l’esercito ha evacuato la zona, ha colpito con l’artiglieria 60 obbiettivi e poi ieri mattina, dopo altri bombardamenti con i jet, ha cominciato l’invasione oltreconfine. Gli americani approvano e partecipano, ma sono in una posizione ambigua.
L’operazione “Scudo dell’Eufrate” ha lo scopo dichiarato di stabilire una zona di controllo turco tra la sponda ovest del fiume Eufrate e il confine con la Turchia, e quindi di battere sul tempo l’avanzata delle Forze siriane democratiche, che dopo avere liberato dallo Stato islamico la città di Manbij, si stavano dirigendo verso Jarablus. Le Forze siriane democratiche (Sdf, come dice la sigla internazionale più usata) si sono dimostrate efficienti nella lotta agli estremisti islamici, ma sono composte in maggioranza da curdi siriani e in minoranza da combattenti arabi dell’opposizione anti Assad, tenuti assieme dall’appoggio militare americano. Se le Sdf fossero arrivate a Jarablus, i curdi avrebbero visto la possibilità assai concreta di stabilire una continuità territoriale da est a ovest lungo tutto il confine sud della Turchia, e questo deve avere convinto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan a dare l’ordine di iniziare l’operazione di terra. Ankara non intende fare arrivare i detestati curdi siriani fino al confine anche a Jarablus.
Per gli americani, oggi tutto questo vuol dire che stanno aiutando un’offensiva turca in Siria che va verso est e un’offensiva curda nello stesso territorio siriano che va verso ovest. E’ soltanto questione di tempo prima che si tocchino. Certo, dal punto di vista nominale per ora la guerra è contro lo Stato islamico, ma c’è il rischio concreto che le due offensive entrambe appoggiate da Washington finiscano per farsi la guerra nel giro di poche settimane o anche prima – se un accordo politico non sarà negoziato prima.
“Scudo dell’Eufrate” è partita proprio poche ore prima dell’arrivo del vicepresidente americano, Joe Biden, ad Ankara. Se sul terreno la situazione militare è imbarazzante in potenza, la visita di Biden è imbarazzata senza dubbi. Dopo il golpe fallito, Erdogan si è dichiarato offeso dalla poca solidarietà americana, offerta in modo troppo sfuggente, e ha lanciato accuse oblique contro Washington perché il predicatore Fethullah Gülen, presunto mandante del colpo di stato, vive in America e perché l’Amministrazione non ha subito mandato qualcuno in visita ufficiale in Turchia. I tabloid turchi hanno ripreso il tema con una serie di titoli-accusa fortissimi. Ieri Biden ha detto: “Vorrei che Gülen vivesse altrove”. E anche: “Se le Forze siriane democratiche non torneranno sulla sponda est dell’Eufrate perderanno l’appoggio americano” (è improbabile, considerato che sono l’unica forza di sfondamento verso la capitale di fatto dello Stato islamico in Siria, la città di Raqqa, ma l’Amministrazione americana deve pur gestire questi ultimi mesi di ambiguità mediorientali).
In questo quadro, il primo a perdere è lo Stato islamico, che sfruttava la zona di confine attorno a Jarablus – circa 150 chilometri – come ultimo punto di scambio e di contrabbando con il mondo esterno. A partire dal 2012 la strategia siriana dello Stato islamico era stata prendere come prima cosa i punti d’accesso lungo il confine turco e piazzare guarnigioni in piccole città che all’improvviso diventavano essenziali, come al Dana, Azaz, Jarablus e Tal Abiad. Ieri questa linea strategica è fallita, smontata pezzo per pezzo.
Il secondo a perdere è il presidente siriano Bashar el Assad, che ad aprile aveva promesso di riconquistare tutto il territorio siriano “shibr shibr”, vale a dire pollice per pollice. Tre giorni fa i curdi hanno cacciato le forze governative dalla città siriana di Hasakah, nel nord-ovest, grazie anche alla copertura aerea americana, che di fatto ha stabilito una cosiddetta “no fly zone”, una piccola zona interdetta ai bombardamenti aerei. Ora Erdogan consegna un altro pezzo di Siria liberata dallo Stato islamico ad alcuni gruppi dell’opposizione armata. Dopo un anno esatto di intense operazioni militari della Russia, il territorio controllato da Assad si è rimpicciolito.