Nelle zone sismiche, prevenire conviene. L'esempio del Giappone
Roma. Sono passati più di quattro mesi da quando una serie di terremoti, la cui magnitudo più alta è stata registrata al settimo grado della scala Richter, ha colpito la prefettura di Kumamoto, nell’isola di Kyushu, in Giappone. Ci sono state settantadue persone morte, cinquanta a causa del terremoto, altre 22 sono decedute successivamente. Il Giappone è forse il paese più preparato del mondo ai disastri naturali. Subisce da sempre la minaccia di terremoti, vulcani, tifoni, inondazioni e ha costruito intorno alle criticità una scienza della prevenzione, fatta di protocolli e linee guida che rispondono all’emergenza. Dopo il devastante terremoto del Tohoku dell’11 marzo del 2011, che provocò un maremoto di un’intensità che mai era stata considerata dagli esperti e danni irreparabili alla centrale nucleare di Fukushima, la scienza si fece ancora più esatta, e la prevenzione ancora più accurata. Le vittime del terremoto del 2011 furono 19 mila. Interi villaggi sono rimasti abbandonati e un numero imprecisato di persone vive ancora, cinque anni dopo, in abitazioni che non possono essere ricostruite.
Subito dopo il più recente terremoto di Kumamoto, il governo ha disposto la costruzione di 3.600 abitazioni temporanee per dare alloggio agli sfollati. A oggi, 1.800 giapponesi si trovano ancora senza un’abitazione e vivono nei centri di evacuazione che, dai 94 aperti subito dopo l’emergenza, stanno man mano chiudendo. Secondo il Japan Times, un mese fa erano state costruite soltanto 1.400 abitazioni temporanee, e molte persone che non avevano trovato alloggi di sicurezza (dai parenti, nei centri di evacuazione) erano state costrette a dormire in macchina. A Kumamoto lo sgombero delle macerie e la messa in sicurezza delle case, secondo i media locali, è andata a rilento anche per le difficili condizioni meteorologiche dei giorni successivi al sisma. Il mito della celere ricostruzione senza intoppi, perfino in Giappone, non esiste, e i centri di ricerca di tutto il mondo faticano a trovare risposte all’emergenza che siano allo stesso tempo economiche e rapide. E proprio perché non esiste un protocollo universale per portare aiuto immediato a un piccolo centro storico colpito da un terremoto, piegato su se stesso, “raso al suolo”, per usare le parole di ieri notte, allora nei momenti di calma ci si concentra su altro. Si chiama DRR, Disaster risk reduction, serve – appunto – a ridurre i rischi prima dell’emergenza. All’ultima conferenza dell’Onu sul DRR, che si è tenuta nel marzo 2015 a Sendai, ha partecipato anche l’Italia. Lì sono state siglate le linee guida universali per cercare di ridurre i danni e soprattutto le morti in caso di catastrofe naturale. In questo campo il Giappone non ha rivali, e non solo per la costruzione di strutture antisismiche. Sin da bambini, i giapponesi imparano come ci si comporta durante un terremoto. Non è retorica: letteralmente ci si prepara al disastro sin dall’asilo.
Giocando, si insegna ai più piccoli a preparare lo zaino delle emergenze, con il caschetto, la coperta, il fischietto, i generi di necessità per trascorrere qualche notte da sfollati. Si insegna a trovare riparo (sotto i banchi, negli spazi aperti), si fanno esercitazioni – in tutti i luoghi pubblici – per conoscere le vie di fuga più sicure (che spesso non sono le stesse in caso di incendio, per esempio). Si impara a capire dove può essere appeso un quadro e perché si dovrebbe dormire sempre con delle calzature a portata di mano – un vetro che cade e si infrange, camminarci sopra a piedi nudi, aumenta il rischio di farsi male gravemente. Durante il terremoto non c’è tempo per pensare, si legge ripetuto come un mantra in tutti i vademecum e infatti le procedure d’emergenza, quando servono, vengono osservate naturalmente. Poi ci sono gli aiutini della tecnica: per esempio Yurekuru Call, un’applicazione che riporta i dati dell’Agenzia meteorologica giapponese. Non prevede un terremoto, ma fa suonare fortissimo gli smartphone dei cinque milioni di giapponesi pochi secondi prima dell’arrivo del sisma, e anche quei pochi secondi, in certe circostanze, sono utili. Il governo nipponico, nel corso degli anni, ha istallato nelle aree sismiche non solo gli altoparlanti per gli avvisi d’emergenza, ma anche un sistema di controllo dell’elettricità che sospende l’energia autonomamente basandosi sulle oscillazioni della terra (“il più grande pericolo dopo il terremoto è il fuoco”, dicono i giapponesi). Così in un attimo si fermano treni, metropolitane, ascensori, e si riduce il rischio di danni collaterali.
Dopo il terremoto di Kumamoto, l’Agenzia meteorologica giapponese ha annunciato che non userà più la parola “aftershock”, perché molti giapponesi dopo la prima scossa del 14 aprile tornarono nelle proprie case, e alcuni di loro morirono nella scossa successiva del 16 aprile, pensando che non ci sarebbero stati altri forti sismi. La parola aftershock rimanda a qualcosa di superato, e invece in una zona sismica, il rischio, quello esiste sempre.
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