L'ingegno italiano dello zar
Agli albori del Cinquecento, l’avventuriero bolognese Ludovico de Varthema incontra nel Malabar i milanesi Ioan Maria e Pietro Antonio che facevano “gran quantità de artiglieria contra sua voglia” per il samorin di Calicut e “non obstante che essi facevano le artiglierie, le imparavano anchor fare ali gentili”.
Ma non c’è bisogno di andare tanto lontano. Tecnici militari e uomini d’arme italiani furono al servizio di potenze europee prima del Cinquecento; tanti ne troviamo poi durante le guerre d’Italia e ancor più successivamente. Spiega uno storico britannico che “lo sviluppo dell’artiglieria e la necessità concomitante di progettare e costruire fortificazioni in grado di resistere al cannoneggiamento conferirono agli italiani una posizione centrale nel mercato militare internazionale, forte quanto lo era stata quella degli svizzeri qualche decina d’anni prima […]. I capitani italiani erano in grado di offrire soldati capaci di combattere secondo una tattica aggiornata assieme a una reputazione di abilità tecnica e teorica incontrastate verso la metà del XVI secolo. I trattati italiani sull’arte della guerra, sulla balistica e sulle tecnologie di fortificazione furono preponderanti tra gli scritti militari nel corso del secolo”. Aggiunge uno storico americano: “Le innovazioni in sostanza cominciarono nel nord Italia alla fine del XV secolo e si diffusero in tutta l’Europa centrale, settentrionale ed orientale nei successivi tre secoli”. Meglio di chiunque altro l’inarrivabile Jacob Burckhardt sintetizza come in Italia si fosse giunti a tale grado di sofisticazione nell’arte della guerra: “Presso gli italiani […] la sollecita introduzione delle armi da fuoco contribuì dal canto suo non poco a democratizzare per così dire la guerra, non solamente perché i castelli meglio agguerriti tremavano all’urto delle bombarde, ma perché l’abilità dell’ingegnere, del fonditore e dell’artigliere, sorti dalla borghesia, acquistava ogni giorno di più la prevalenza […]. Nella generalità si lasciarono prevalere le nuove invenzioni e si cercò di trarne il maggior profitto possibile, per modo che gl’Italiani tanto pei mezzi d’attacco, quanto per la costruzione delle fortezze divennero maestri di tutta Europa. Principi quali un Federigo da Urbino e un Alfonso di Napoli, si procurarono cognizioni in questa materia da far parere superficiale il loro confronto con lo stesso imperatore Massimiliano I. In Italia, prima che altrove, si hanno una scienza e un’arte della guerra come guerra nel suo complesso organico”. Nemmeno l’emergente Stato moscovita, come scrive lo storico estone Jüri Kivimäe, si era sottratto all’influenza italiana in questo campo: “Nel periodo tra il 1480 e il 1530 gli italiani monopolizzarono quasi completamente i lavori di fortificazione e l’industria bellica in Russia”.
Risaliamo ora ai tempii del granduca Ivan III, il penultimo “assembratore della terra russa”. “Assembratori della terra russa” furono chiamati i granduchi da Ivan I “Kalita” a Basilio III, promotori dell’espansione moscovita. Come altrove, anche in Moscovia erano particolarmente apprezzati i fonditori, gli artiglieri, i fortificatori, i costruttori di macchine d’assedio e ancor più chi riassumeva in sé tutte queste capacità. Vi troviamo il bolognese Aristotele Fioravanti, noto in Russia e da noi soprattutto come architetto della magnifica Cattedrale della Dormizione nel Cremlino di Mosca. Proveniva da una famiglia di ingegneri e forse non sapeva dipingere, ma per il resto il curriculum del maestro non era troppo dissimile da quello di Leonardo da Vinci. Non sbaglieremmo di molto se immaginassimo “l’ingegnere Bolognexe” raccontare nel 1474 all’inviato di Ivan III in Italia Semën Tolbuzin – come avrebbe fatto Leonardo anni dopo nella sua lettera a Lodovico il Moro – di aver “modi de ponti leggerissimi et forti, et atti a portare facilissimamente, et cum quelli seguire, & alcuna volta fuggire li inimici […] facili e commodi da levare et ponere […] Ho ancora modi di bombarde comodissime et facili da portare […] cum el fumo di quella dando grande spavento all’inimico, cum grave suo danno et confusione […].
In tempo di pace satisfare benissimo a paragone di omni altro in architettura, in composizione di edifici pubblici et privati, et di conducer acqua da uno loco ad un altro”. Era noto per i suoi congegni, per aver raddrizzato campanili e condotto diverse opere idrauliche a Milano e in altre parti del Centro e Nord Italia; inoltre aveva lavorato ad alcune fortificazioni in Ungheria sotto Mattia Corvino. A Bologna aveva spostato la torre della Magione “a 12 di Agosto del 1455 fu tirata da luogo a luogo con tutti li suoi fondamenti, con ingegni, i quali fece Aristotile di Mastro Feravante con me suo compagno, fu tirata in verso la Viazzuola, e ivi posta e lasciata fu portata di longhezza di tredici piedi. All’hora teneva M. Achille Malvezzi la Maggione, che ci donò lire cento, e Monsignor Bisarione legato ce ne donò cinquanta”. Ho ripreso questo breve brano da uno scritto di Gasparo Nadi, collaboratore del maestro, per la menzione che vi si fa del cardinal Bessarione. Fu lui che di lì a qualche anno avrebbe patrocinato le nozze della sua pupilla, la despina Zoe (Sofia) Paleologina, con il granduca Ivan III di Moscovia, avvenute nel 1472, e non credo sia troppo azzardato ipotizzare che proprio Bessarione possa aver informato quella corte, direttamente o attraverso la sua protetta, sulle abilità del maestro di Bologna.
Ingaggiato per 10 rubli al mese, Fioravanti giunse a Mosca nel 1475, mentre si celebrava la Pasqua ortodossa, in compagnia del figlio Andrea e di un giovane di nome Petruccio, probabilmente il suo apprendista: “Arrivò da Roma l’inviato del granduca Semën Tolbuzin e portò con sé un maestro di muro, il quale erige chiese e palazzi, di nome Aristotele; egli è anche un bombardiere: noto per fondere cannoni e colpire con loro”. (…) Appena giunto a Mosca il maestro bolognese, che sfiorava ormai la sessantina, si mise subito al lavoro: fece sgombrare le macerie della Cattedrale della Dormizione, crollata qualche tempo prima del suo arrivo mentre la stavano erigendo i maestri di Pskov, allestì una fornace di mattoni, modificò il composto della calce, costruì macchine per sollevare i materiali, e iniziò a costruire sullo stesso luogo una cattedrale tutta nuova.
Ma a noi interessa l’aspetto militare della sua attività in Moscovia. Anche se non vi sono riferimenti diretti nelle cronache, tuttavia è opinione condivisa degli storici che egli abbia allestino nel 1477 la prima fonderia di cannoni, la “pusecnaja izba”. Si trattò di un salto tecnologico fondamentale segnato segnato dal passaggio dalla produzione di cannoni forgiati in ferro a quelli in fusione di bronzo. I più economici cannoni in colata di ferro – fabbricati in Inghilterra nel secolo successivo – sarebbero rimasti per lungo tempo inferiore, come efficienza, a quello di bronzo. L’“izba” sorse vicino alla porta di San Florio (Frolovskie vorota), ma già nel 1478 venne distrutta da un incendio. Nello stesso luogo, e altrove in città, gli italiani impiantarono diverse nuove fonderie. La vecchia porta di San Florio fu in seguito rifatta dal milanese Pietro Antonio Solari. Ribattezzata porta del Salvatore (Spasskie vorota), oggi è l’entrata principale del Cremlino sulla Piazza Rossa. Come recita l’iscrizione sulla porta: “[…] statuit Petrus Antonius Solarius mediolanensis Anno nativitatis Domini 1491”.
Oltre all’artiglieria pesante, nella pusecnaja izba si costruivano anche armi portatili, altrimenti definite cannoni a manibus o maneschi, scoppietti e archibugi. Inoltre, vi venivano addestrate le maestranze locali. Più avanti le varie fonderie sarebbero state riordinate e il luogo avrebbe preso il nome di Corte dei cannoni (Pusecnyj dvor). Annota lo storico militare Aleksej Lobin che “gli italiani che avevano impiantato la fabbrica di cannoni organizzarono la produzione seguendo i modelli italiani […] presto le truppe russe ebbero a disposizione nuovissime armi da campo. La corte dei cannoni produsse una partita di falconetti da sei libbre che per la prima volta erano stati acquistati in Italia anni prima. Nella prima metà del XVI secolo i falconetti da campo facevano parte dell’armamento degli eserciti soltanto in Italia e in Russia”.
(…) L’attività di Fioravanti non si limitò all’architettura e all’ingegneria, inclusa la produzione di armi da fuoco. Alla testa dei bombardieri e degli archibugieri egli partecipò attivamente alle campagne militari di Ivan III. Nel 1477-79 il bolognese prese parte alla conquista della ribelle Novgorod, che segnò la fine delle libertà repubblicane in quella città e la sua annessione definitiva alla Moscovia. Durante l’assedio, nel dicembre del 1477, costruì un ponte di barche sul fiume Volchov tra la fortezza che fungeva da residenza per i luogotenenti dei granduchi di Moscovia e la città: “Ordinò il granduca ad Aristotele Italiano di costruire ponti sul fiume Volchov sotto la fortezza: e quel maestro fece un tale ponte di barche sotto la fortezza sopra quel fiume […] e il ponte regge”. All’inizio del 1478, ottenuta la capitolazione di Novgorod la Grande, le truppe del granduca rientrarono a Mosca, ma dovettero tornarci l’anno seguente perché la città nel frattempo si era di nuovo sollevata, e questa volta le artigliere moscovite, sempre al comando di Fioravanti, sottoposero la città a un intenso bombardamento.
Come racconta il cronista Vasilij Tatiscev “spararono dai cannoni incessantemente, perché Aristotele era assai abile”. Secondo (tra gli altri) Georgik Rovenskij, storico locale di Frjazino, una cittadina a una ventina di chilometri da Mosca e uno dei non pochi toponimi russi che segnalano una qualche presenza italiana nel passato, l’artiglieria prodotta da Fioravanti fu schierata nell’autunno del 1480 a protezione dei guadi sul fiume Ugra, un affluente dell’Oka. Fu lì che le truppe del granduca riuscirono a fermare l’esercito della Grande Orda del can Ahmed, desideroso di punire il suo riluttante tributario. Rovenskij, tuttavia, non si spinge fino a ipotizzare una presenza fisica del bolognese in quella circostanza. Infatti, benché le cronache attestino sull’Ugra la partecipazione di piscal’ niki, tuttavia il nome di Aristotele non vi compare. Lo ritroviamo invece di nuovo a capo dell’artiglieria nella campagna di Kazan’ del 1482: “Mandò il granduca [contro Kazan’] davanti a sé i suoi condottieri con il suo esercito, e Aristotele con i cannoni […]. I condottieri arrivarono, e Aristotele coi cannoni, fino a Niznij Novgorod”. A Niznij, infatti, la campagna si interruppe per la richiesta di pace da parte del can.
Il 1485 segnò la fine e l’annessione di un altro rivale storico della Moscovia, il Granducato di Tver’, la cui capitale distava da Mosca poco più di centocinquanta chilometri. Tver’ fu costretta a cedere all’esercito di Ivan III dopo un breve assedio di tre giorni. L’ultimo granduca Michail Borisovic cercò rifugio in Lituania, tradizionalmente alleata di Tver’. Anche in questo caso le cronache registrano la presenza di Fioravanti: “Quell’estate il granduca, raccolto un cospicuo esercito, andò contro Tver’, e con lui Aristotele con i cannoni, con i tjufjak e gli schioppi”. (…)
Lascio ad altri il compito di tracciare un primo bilancio sul contributo degli italiani allo sviluppo bellico moscovita alla fine del Quattrocento. Stando a quanto afferma la storica russa della tecnologia Irina Guzevic, “la Russia deve agli italiani la nascita della sua artiglieria di guerra. Qui il trasferimento di conoscenze è assicurato in tre aree principali: l’arte di costruire cannoni, la produzione di polvere da sparo e il comando delle artiglierie durante le ostilità. Bocche da fuoco erano comparse in Russia ancor prima della venuta degli italiani. Ma si trattava di casi isolati, probabilmente trofei di guerra denominati tufjak o armat, bombarde di legno, bombarde di legno, di ferro forgiato o di cuoio. Alla luce di minuziosi studi storici, l’opera degli italiani in questo campo appare doppiamente innovatrice in quanto essi sembrano essere riusciti sia a gestire la transizione dalle vecchie bombarde ai cannoni e colubrine costituiti da un pezzo unico in colata di bronzo, sia a metterne in piedi la produzione regolare all’interno di un’officina, la Corte dei cannoni, organizzata da Fioravanti a Mosca attorno al 1477 e successivamente diretta da un qualche suo compatriota. Si tratta tuttavia di una tecnica che non diventa veramente operativa a meno che la fabbricazione dei cannoni non sia associata a quella della polvere da sparo. Tale compito fu risolto con l’allestimento delle polveriere, la più famosa delle quali prese il nome del suo fondatore – la Corte di Aloisio. I militari russi dovevano ancora imparare a destreggiarsi nell’uso dell’artiglieria. Nel frattempo fu ancora una volta Aristotele che si assunse l’incarico di comandare l’artiglieria di Mosca durante le campagne contro Novgorod, Kazan’ e Tver’. I cannoni di sua fabbricazione, posizionati a protezione dei guadi, svolsero un ruolo decisivo nella vittoria incruenta riportata dall’armata russa nel 1480 durante il famoso ‘stallo sul fiume Ugra’, una vittoria storica che segnerà l’affrancamento della Russia dal giogo tataro”.
Quelli che anticipiamo in questa pagina sono stralci del libro “Italiani d’arme in Russia”, in uscita il 1° settembre per l’editore Carocci (199 pagine, 21 euro).
L’autore, Mario Corti, ha lavorato per Radio Free Europe-Radio Liberty a Monaco di Baviera e a Praga, fino a diventarne direttore del Servizio russo. Tra i suoi saggi pubblicati in italiano si segnala anche “Gli ‘altri’ italiani. Medici al servizio della Russia” (Carocci, 2011).
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