La disperazione dell'America bianca oltre i fattori economici
New York. J. D. Vance ha 31 anni e viene da una città dell’Ohio in cui lo scorso anno i decessi per la dipendenza dall’eroina hanno superato quelli per cause naturali. Per tutta la vita sua madre ha lottato con la droga, mentre il padre, come spesso accade in quelle comunità, s’è rapidamente eclissato, lasciando il posto a una lunga serie di patrigni e affidatari, salvo poi trovare in un’inaspettata conversione la forza di uscire da un destino che sembrava già scritto. Vance ha pubblicato un racconto biografico intitolato “Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis”, elegia di una famiglia bianca americana della classe più umile, di quelle martoriate da patologie sociali ed esistenziali così profonde che nessun sussidio statale è in grado di dare vero sollievo. Lui è il primo della famiglia a imboccare l’ascensore sociale che va verso l’alto, anche se a conti fatti la laurea in Legge a Yale non l’ha trasformato in un giudice federale o nel miliardario fondatore di una startup. Vance ha fatto il passaggio più difficile: è passato dal proletariato alla classe media. Ma questa storia della conquista della normalità è talmente straordinaria che “Hillbilly Elegy” è diventato il caso editoriale dell’anno, un titolo stabilmente in classifica da un paio di mesi anche se non porta traccia del fascino facile del libro da ombrellone.
Il motivo è che Vance racconta del cosmo americano che vede Donald Trump come il salvatore della patria dalle cospirazioni delle élite e dal cancro della globalizzazione. E’ l’America bianca della desertificazione postindustriale, delle roulotte e della violenza domestica diventata rituale, delle ragazze madri, delle miniere di carbone della West Virginia e delle “steel town” della Pennsylvania, agglomerati di capannoni e uomini abbandonati. Non si tratta soltanto del racconto di una regressione economica, ma della vicenda di “una cultura che incoraggia sempre di più la decadenza sociale invece di contrastarla”, come se il collasso di un pezzo d’America non fosse soltanto opera di un cambiamento del modello produttivo globale, ma anche di un suicidio esistenziale.
In un’intervista, Vance ha spiegato che gli elementi economici e razziali con cui generalmente si spiega la crisi del mondo “hillbilly”, e dunque l’ascesa di Trump, non rendono ragione di un fenomeno che è più vasto e profondo: “Quello che alimenta il fenomeno Trump è un’ansia sociale e culturale, è l’idea che il mondo attorno a noi si sta sgretolando. Non è appena che non riesci a trovare un lavoro decente, è che i tuoi figli stanno morendo di overdose. Le famiglie si disintegrano. Le chiese non sono davvero presenti nelle comunità. Non puoi fidarti dei media, delle élite, non puoi fidarti di nessuno. E’ questa percezione che il mondo intero sta in qualche modo cospirando contro di te”.
Per questo popolo sofferente, attanagliato da una paranoia che è figlia dell’erosione della fiducia nella possibilità di trovare un senso all’esistenza, “la candidatura di Trump è musica: il suo tono apocalittico s’accorda perfettamente con la loro esperienza di vita”, dice Vance, che non ha l’aria snobista dell’etologo che studia da fuori la decadenza di una popolazione. Quello è il suo popolo. Il popolo degli “hillbilly”, i rozzi della rust belt che dopo decenni di silenziosa esclusione dalle dinamiche della politica governata dall’establishment sono diventati il cuore della più folle tornata elettorale. Vance li racconta con lucido dolore, senza cinismo.