La Srebrenica islamica
Roma. Un anno fa, mentre il mondo commemorava i vent’anni da Srebrenica, altri sterminatori etnico-religiosi realizzavano una doppia Srebrenica ai danni di yazidi, cristiani, sciiti, kakai, shabak, mandei, sabei, gli antichi abitanti della Mesopotamia. Il risultato sono le 72 fosse comuni in cui l’Isis ha sepolto 15 mila vittime del jihad a gloria di Allah e del Califfato. Ulteriori fosse verranno alla luce dopo la cacciata dell’Isis dalle zone di Mosul e Raqqa. Un anno fa, Laura Boldrini, presidente della Camera, era a Srebrenica nel ventesimo anniversario, e indossando il velo fece mea culpa: “Tutti noi portiamo la responsabilità”. Non è vero. Srebrenica era un’“area protetta” dell’Onu e l’eccidio di 8 mila civili cominciò dopo il brindisi fra il colonnello olandese Ton Karremans e Ratko Mladic. La colpa fu di un occidente disarmato che si era affidato a fragili organismi internazionali per la protezione dei civili. Il “mai più” del genocidio impone l’intervento. E l’Onu non interviene mai. I curdi di Kobane non vanno aggiunti ai 15 mila delle fossi comuni soltanto grazie alle bombe occidentali. Vent’anni dopo la Bosnia, Srebrenica non ha ancora sconfitto l’illusione di conciliare l’inconciliabile da parte dell’occidente delle geremiadi che chiama “inaccettabile” quel che ha già in anticipo accettato. Quando due anni fa l’Isis catturò le comunità yazide e cristiane non si sapeva forse che fine avrebbero fatto?
Ripetiamo un altro errore di Srebrenica: accettare la simmetria fratricida che artatamente le potenze occidentali, per evitare coinvolgimenti, addossarono a tutte le confessioni, facendo credere che non era un’aggressione unilaterale, ma un conflitto di tutti contro tutti a responsabilità ataviche paritarie, serbi contro bosniaci contro croati. Oggi pensiamo lo stesso su sunniti contro sciiti contro curdi. Ma c’è una differenza fra Srebrenica e i morti degli islamisti: allora le notizie, le immagini e i racconti di quanto era avvenuto spronarono le democrazie occidentali a intervenire, dopo la tabula rasa di Vukovar, dopo l’assedio con cecchinaggio di Sarajevo, dopo i bombardamenti dell’inerme Dubrovnik, dopo il fallito assalto serbo al Kosovo. Oggi le fosse comuni dell’Isis finiscono a malapena sui giornali, in secondo piano rispetto alle foto dei bimbi della città-martire di Aleppo, miglior invito alla pace e all’apertura delle frontiere.
Dieci anni fa, dopo il surge in Iraq, i marine scoprirono le stanze della tortura di al Qaida, i progenitori dell’Isis: mani trapanate, avambracci tranciati, bulbi oculari estratti, crani schiacciati. Non l’Abc, non la Cbs, non la Cnn, non il New York Times pubblicarono una sola di quelle foto, mentre ci avevano riempito gli occhi coi nudi d’autore di Abu Ghraib. Se non c’è la firma americana, la tortura non vale la pubblicazione. Così oggi che su quelle 72 fosse comuni c’è la firma dell’Isis si preferisce glissare. Eppure quelle fosse ci riguardano, perché come ha scritto il Telegraph, le prime fosse comuni islamiste sono state scoperte mentre la Francia contava ancora i morti del teatro Bataclan. Siamo stati pusillanimi. E si discute ancora se quello contro i cristiani da parte dell’Isis sia un “genocidio”. Come quando 200 mila sudanesi del Darfur furono sterminati mentre al Palazzo di vetro i burocrati discettavano se fosse o meno un “genocidio”. Milosevic è morto in cella all’Aia, dove oggi si trovano anche Mladic e Karadzic, i macellai di Srebrenica. Ma all’Aia non vedremo alla sbarra il califfo al Baghdadi. Complice un occidente ansioso che si consola presto, pur lacrimando molto.