L'impeachment in odor di golpe di Dilma è il culmine della crisi brasiliana
Roma. Dopo un processo durato quasi quattro mesi, il Senato del Brasile ha votato l’approvazione definitiva dell’impeachment nei confronti della presidente Dilma Rousseff, sancendo così la sua estromissione dall’incarico. Il voto è stato rapido e soprattutto schiacciante, 61 favorevoli e 20 contrari, e chiude con l’ultimo disonore tredici anni di dominio quasi assoluto della sinistra del Partito dei lavoratori (Pt) sulla più grande economia latinoamericana. Rousseff era stata già sospesa dal suo incarico nel maggio di quest’anno, e da allora era stata sostituita ad interim dal vicepresidente dell’opposizione di centrodestra (Pmdb) Michel Temer, che adesso, a meno di passi falsi, concluderà il mandato fino al 2018.
Il voto d’impeachment è un momento drammatico della vita politica brasiliana, ma è soprattutto il culmine di una crisi economica, giudiziaria e morale che ha pochi precedenti nella storia del paese. Dal 2014, il Brasile vive immerso in un clima da Tangentopoli permanente: l’inchiesta Lava Jato, un’indagine sui rapporti di corruzione tra la società petrolifera di stato Petrobras e la stragrande maggioranza della classe politica, ha falcidiato le dirigenze di tutti i partiti, nessuno escluso, devastato l’esecutivo Rousseff e trasformato i magistrati in rockstar che dettano legge nelle piazze e sulle prime pagine dei giornali.
Paradossalmente Rousseff, pur essendo stata presidente di Petrobras negli anni Duemila, non è mai stata toccata da accuse di corruzione, al contrario di parte del suo governo, del suo mentore e padrino politico, l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, e perfino della maggioranza dei senatori che ha votato la sua destituzione. L’accusa che ha condannato Rousseff all’impeachment è quella di aver violato le leggi sul bilancio, peccato decisamente veniale visto l’andazzo nel paese, ed è per questo che Rousseff e i suoi sostenitori gridano al golpe: una classe politica di presunti corrotti ha buttato giù per una inezia una presidente mai sfiorata dalle indagini. Eppure Rousseff resta la principale colpevole della crisi del paese, e come hanno mostrato i mercati finanziari in questi mesi, che esultavano a ogni colpo inferto alla ormai ex presidente, la sua cacciata è considerata da molti una buona notizia.
La cattiva gestione economica di Rousseff ha portato il Brasile – che fino a pochi anni fa viaggiava a tassi di crescita del pil che competevano con la Cina – al peggior calo della crescita in 80 anni (meno 7 per cento), all’esplosione dell’inflazione e a una disoccupazione record (11,6 per cento a luglio). Rousseff ha depresso un paese che era già sul trampolino di lancio per entrare nel club dei grandi, e ha malgestito uno scandalo di corruzione che sta trasformando il Brasile in uno stato in cui il giudiziario ha usurpato spazi e funzioni. In molti, in Brasile e fuori, dicono che se il golpe c’è stato è stato a fin di bene. Il nuovo presidente Temer ha riportato la fiducia nei mercati finanziari, e pur guidando un governo già colpito da indagini e dimissioni sta varando riforme di un certo rilievo.
Eppure, l’uso dei mezzi giudiziari e dell’intrigo politico è il peggiore dei modi possibili per sbarazzarsi di una presidente inadeguata al suo ruolo. Rousseff ha perso la carica, ma contestualmente è stata bocciata la proposta di renderla ineleggibile per otto anni. Lei o Lula inizieranno una lotta strenua in Parlamento e fuori, i guai per il Brasile non sono finiti.