L'incubo tedesco di diventare la nuova meta del radicalismo islamico
Roma. Heinz Buschkowsky, storico sindaco socialdemocratico di Neukölln, enorme distretto di Berlino (325 mila abitanti) l’aveva detto un anno fa, dimettendosi dalla carica con dodici mesi d’anticipo: “Bande criminali arabe hanno il controllo di intere strade, studenti di quinta elementare che non sanno neanche parlare tedesco”. A Berlino, la capitale. Troppo anche per un tipo come lui, che della Spd è da sempre un peso massimo. Osservava i portoni delle scuole, dove gruppi di uomini distribuivano alle ragazze volantini in cui le si invitava a coprirsi da testa a piedi, lasciando visibili solo viso e mani. Guardava e, forse, preconizzava per Neukölln un destino alla Saint Denis, l’enorme banlieue nord parigina dove è pericoloso passeggiare anche la domenica a mezzogiorno nei dintorni della basilica.
Ahmad Mansour, psicologo arabo israeliano trapiantato in Germania e divenuto uno dei grandi esperti di islam, l’ha scritto: attenzione che ci stiamo perdendo i giovani musulmani, i figli dei figli di quanti, dal Dopoguerra in poi, hanno scelto il cuore d’Europa per costruirsi una vita e una famiglia. Nascono e crescono un po’ ovunque i ghetti, zone di nessuno che spesso sfuggono al controllo dello stato. L’emergenza migratoria, con i profughi accolti nel paese, ha solo acuito una tendenza visibile da tempo, ma che non aveva mai rappresenato un’emergenza come quella odierna. Anzi, ci s’era spinti anche a sostenere – come aveva fatto Angela Merkel – che “l’islam appartiene alla Germania” e che – parole del cardinale arcivescovo di Colonia, Rainer Maria Woelki – “chi dice sì ai campanili deve dire sì anche ai minareti”.
Alexander Kissler, commentatore della rivista culturale Cicero, diceva al Foglio che “la Germania ha perso il suo equilibrio”, mostrando ancora una volta tutta la sua “nevrosi” nell’affrontare questioni che la possano far apparire, anche solo lontanamente, intollerante contro popoli o culture a essa estranee. Il problema è che oggi, scriveva Mansour, dopo ogni episodio di violenza in patria si ripropone lo schema già visto in Francia e cioè negare che ogni violenza sia riconducibile all’islam politico: “Dire che ciò non ha nulla a che fare con l’islam è solo un tentativo di rifiutare ogni responsabilità”, aggiunge Mansour, osservando che questo comportamento di certo “non salva un giovane” attratto dalle sirene fondamentaliste. Sirene che paiono esserci in abbondanza, se è vero che inizia a destare preoccupazione anche la radicalizzazione che si origina da prediche e sermoni tenuti nei centri islamici diffusi su tutto il territorio tedesco. Ecco perché sarebbe utile puntare il riflettore su ciò che accade realmente dentro quei luoghi, per lo più dipendenti da finanziamenti stranieri (Turchia e Arabia Saudita, soprattutto) che in più d’una occasione hanno dato segni di manifesta ambiguità circa programmi e linea di condotta.
Proprio in questi giorni è tornato alla ribalta il destino della King Fahd Academy, la grande scuola di Bonn inaugurata nel 1995, sostenuta dai soldi di Riad e intitolata all’allora sovrano wahaabita. Tedesco e inglese sono considerate lingue straniere e dopo gli attentati dell’11 settembre del 2001 le autorità avevano anche sospettato che tra le sue aule si annidassero sostenitori di al Qaida. Nel 2003, si incitava alla guerra santa contro i non musulmani e nei testi si esalta chi combatte gli infedeli. Ha rischiato la chiusura, ma alla fine di un negoziato tra l’amministrazione locale e i sauditi, ha potuto continuare a lavorare senza revisione dei programmi di studio. Ora tutto torna in discussione.