Non è la Thatcher. Perché Theresa May è ancora lontanissima dalla Lady di ferro
Le trattative sulla Brexit, le nomine, lo stile. Nonostante le apparenze, il basso profilo tenuto dal primo ministro britannico in questi mesi è tutto il contrario di quello che avrebbe fatto la Lady
A circa due mesi dal suo arrivo come primo ministro a Downing Street, Theresa May – complice anche la chiusura estiva del sempre tumultuoso Parlamento britannico – non è riuscita ancora a uscire dall’ombra ingombrante di Margaret Thatcher. Entrambe donne, entrambe subentrate alla guida del Partito conservatore un po’ a sorpresa ed entrambe chiamate a una difficoltosa prova di equilibrismo. Quando nel 1979 la Thatcher fu chiamata dall’elettorato a governare il “malato d’Europa” dell’epoca, fin dai primi giorni, riuscì catalizzare la pubblica opinione e a occupare le prime pagine tutti gli organi di informazione britannici e non. C’era da salvare, all’epoca, un paese in ginocchio, bloccato regolarmente dagli scioperi selvaggi indetti dai potentissimi sindacati vicini ai laburisti e stremato da una inflazione galoppante. I rimedi della Thatcher, pur brutali e nel breve periodo decisamente impopolari, riuscirono, però, a garantirle ben undici anni di premiership con altre due tappe elettorali vinte agevolmente.
Per quanto molti commentatori l’abbiano paragonata alla Lady di ferro, oggi, Theresa May appare molto diversa dalla Thatcher, per cultura e per personalità. Vero è che, pure stavolta, e quasi fatalmente come nel ‘79, il Regno Unito si sta ripresentando come “il malato” in grado di destabilizzare i fragili equilibri comunitari e di mettere in discussione il significato stesso dell’istituzione europea. L’aver chiamato proprio la May a gestire il negoziato che porterà, presumibilmente in tempi non brevissimi, il Regno Unito fuori dall’Europa rappresenta già un segnale di cosa non farà e di chi non sarà il nuovo primo ministro.
I summit europei con a latere i consueti show antieuro della Lady rimarranno, con grande probabilità, solo dei ricordi di quei meravigliosi anni ’80. Al contrario, il governo britannico sta tenendo un profilo decisamente basso – ormai da circa sessanta giorni – e di questa strategia sono arrivati riscontri sia con la decisione di far predisporre ai ministri del neogoverno una road map da concordare assieme ai commissari di Bruxelles sia con il niet della May alla proposta di tenere in Parlamento un dibattito formale, decisamente poco conveniente sotto il punto di vista mediatico. Non c’è da dubitare che, viceversa, una Thatcher non solo si sarebbe presentata di corsa a Westminster ma avrebbe creato le condizioni per una discussione destinata a permanere per settimane sui media.
In che modo, poi, procederà il negoziato di secessione dall’Europa non è ancora chiaro. La scelta di affidare all’antieuropeista per eccellenza Boris Johnson il ministero degli Esteri la dice lunga su come la May abbia deciso non solo di ribaltare la consuetudine dell’èra thatcheriana – che prevedeva il binomio “euroscettico” al 10 di Downing Street e “filoeuropeista” al Foreign Office –, ma anche di voler gestire in prima persona tutte le complesse fasi di un procedimento sull attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona.
E’ curioso, infine, sottolineare come anche il destino stia giocando un ruolo cruciale su questi convulsi mesi post Brexit. Il massiccio stop ai flussi migratori, secondo numerosi analisti economici, agevolerà, in particolar modo, proprio quelle categorie operaie che per un decennio avevano mal digerito il thatcherismo e gli effetti dei suoi interventi economici. La politica migratoria “aperta” degli anni ruggenti di Tony Blair, infatti, aveva determinato un netto calo dei salari del settore della manodopera locale a causa della concorrenza al ribasso di quella straniera. La Brexit, insomma, con qualche anno di ritardo, è destinata ad arricchire le tasche dei vecchi nemici dei conservatori. Se la May, grazie a questa strana legge del contrappasso, potrà anche contare sul consenso del mondo operaio, vorrà dire che l’èra Thatcher non solo è ben lungi dal tornare in auge ma è destinata a rimanere una felice parentesi nei nostri libri di storia. D'altronde in una nazione di pragmatici votare con una mano al portafogli non è mai passato di moda.
L'autore è capo della segreteria della Fondazione Einaudi