Non solo il Ttip, l'Ue avalla il protezionismo anche nel settore alimentare
Roma. “Era successo con gli Ogm e con il glifosato, ora con l’obbligo di etichettatura del paese di origine: quando si tratta di prendere alcune decisioni sensibili, la Commissione europea si tira indietro”. Dario Dongo è un esperto di diritto alimentare europeo e fondatore di Food and Agriculture Requirements, sostenitore del diritto dei consumatori a conoscere da dove provengono gli ingredienti dei prodotti che ogni giorno finiscono sulle tavole di circa 500 milioni di cittadini europei. Quello alimentare è uno dei settori in cui l’Ue ha raggiunto un elevato livello di armonizzazione legislativa. Ma la crisi economica ha avuto effetti drammatici per i piccoli e medi produttori agro-alimentari europei e l’ultimo anno si è concluso con un bilancio negativo dal loro punto di vista: fine delle quote latte e prezzi bassi. Così, per sostenere il settore, molti stati ricorrono a soluzioni cripto protezionistiche, avallate proprio dal garante dell’integrità del mercato libero tra i 28: la Commissione Ue.
Ad aprire le danze, lo scorso luglio, è stato il ministro della Salute francese, Stéphane Le Foll, messo sotto pressione dai dati forniti da un istituto di ricerca (Invs) che ha calcolato 200 suicidi l’anno tra allevatori e coltivatori colpiti dalla crisi. Parigi ha annunciato di aver ricevuto luce verde da Bruxelles per l’obbligo, e non più la sola possibilità, dell’indicazione del paese di origine di latte e carne usati come ingredienti nei prodotti lavorati. Per intenderci, il latte, o le lasagne surgelate francesi saranno tra i prodotti che dovranno avere un’etichetta che indicherà da quale paese provengono latte e carne. “Il provvedimento risponde al diritto all’informazione del consumatore e a una Risoluzione dell’Europarlamento del 2015 in cui si invitava la Commissione a prendere un’iniziativa condivisa”, dice Dongo. Ma la richiesta francese manca di documenti essenziali: secondo le procedure, il governo avrebbe dovuto provare che la qualità del prodotto finito dipende dall’origine degli ingredienti. E ancora, che i consumatori siano in grado di riconoscere questo miglioramento della qualità. “Nessuna delle due documentazioni è stata presentata ma, evidentemente, la Commissione ha deciso di soprassedere su queste irregolarità procedurali”, spiega Dongo.
Ma le federazioni europee dell’industria alimentare sostengono che la misura mette in pericolo il mercato unico europeo e provocherà un aumento dei costi di produzione. Seguendo il precedente francese, Italia, Lituania, Romania e Portogallo hanno sottoposto a Bruxelles testi di legge analoghi. Alcune industrie del settore agro-alimentare contestano alla Commissione di avallare un’Europa “a doppia velocità”: “Accettando questo progetto la Commissione afferma che c’è una differenza qualitativa fra i prodotti francesi e, per esempio, quelli del Belgio, della Germania, dell’Italia, della Spagna, anche se provengono da appena qualche chilometro oltre i confini tra uno stato e l’altro”, ha detto Mella Frewen, direttore di FoodDrinkEurope, lobby europea del settore. La Commissione europea non ha voluto commentare il caso francese e le sue anomalie e la Direzione generale per la salute dei consumatori si è limitata a spiegare che Parigi avrebbe condotto uno studio di impatto sul mercato al termine di un periodo di prova di due anni.
Così, dopo la Francia, ora è il turno dell’Italia, che lo scorso 24 giugno ha presentato alla Commissione europea la prima versione di una bozza di decreto simile a quello francese, limitato però ai prodotti caseari. “E’ un passo storico per i produttori italiani”, aveva annunciato il presidente del Consiglio Matteo Renzi qualche settimana fa, sostenuto dalle associazioni dei consumatori come Coldiretti, che invitavano il governo a prendere spunto dall’iniziativa francese. “Dobbiamo dare una risposta a quel 96,5 per cento di cittadini che ha partecipato alla consultazione pubblica sul sito del ministero delle Politiche agricole” (Mipaaf), ha detto il presidente di Coldiretti, Roberto Moncalvi. Per dare maggior peso al decreto sottoposto a Bruxelles, il Mipaaf ha invitato chi volesse a votare sul suo sito sull’obbligo dell’etichettatura del paese di origine. Una maggioranza schiacciante si è espressa favorevolmente, sebbene il sistema mostrasse alcune anomalie e permettesse allo stesso singolo utente di votare più di una volta. “Il diritto all’informazione del consumatore non deve certo essere in contrasto con l’armonizzazione del mercato”, dice al Foglio Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare, l’associazione italiana dell’industria alimentare. “Per questo abbiamo chiesto che gli sforzi di Commissione e stati membri si concentrassero sull’indicazione di origine dell’ingrediente primario – obbligatoria solo quando viene pubblicizzata l’origine dell’alimento lavorato, per esempio la farina nel caso della ‘pasta italiana’, ndr – dando informazioni trasparenti e senza discriminazioni”. L’industria imputa scarsa coerenza alla Commissione. Solo lo scorso 12 luglio il commissario per la Salute e la Sicurezza alimentare, Vytenis Andriukaitis, aveva ammesso che misure come quella francese avrebbero portato a un aumento dei costi di produzione e che “da tutti i report risulta la mancanza di volontà dei consumatori di spendere di più per avere più informazioni”.
Il vaso di Pandora scoperchiato ora dalla Commissione ha innescato un effetto contagio. “Il trionfo dell’euroscetticismo, la Brexit, sono fattori che stanno spaccando l’Ue dando mano libera alle legislazioni nazionali”, dice Dongo che avrebbe preferito una legislazione uniforme in materia. La Romania, senza avvisare Bruxelles, ha già emanato una legge che, oltre a chiedere l’obbligo dell’etichettatura del paese di origine, impone ai supermercati di vendere almeno il 51 per cento dei prodotti locali e di organizzare eventi per pubblicizzare il chilometro zero, pena la chiusura del negozio. “E’ una palese violazione del diritto europeo, in particolare dell’articolo 34 del Trattato sul funzionamento dell’Ue, dove si proibiscono ingiustificate restrizioni al commercio intra-europeo”, dice al Foglio Lara Skoblikov, partner della società di consulenza Food Compliance International.