C'è un metodo nella dialettica fra il Trump demagogo e lo statista
New York. Il Donald Trump visto a Città del Messico è un accorto diplomatico che “parla a bassa voce ma porta con sé un bastone grosso”, come da massima di Teddy Roosevelt. Viene accolto da un Enrique Peña Nieto in disperata ricerca di consensi con onori e colpo d’occhio da statista, in modo protocollare in conferenza stampa elude la domanda più complicata, quella su chi pagherà per la costruzione del muro sul confine, anche se il trasferimento dei costi al Messico è uno dei sette punti del suo programma (nella gerarchia è secondo soltanto alla “visione economica”). E’ il candidato presentabile che ascolta i consigli sorvegliati di Jared Kushner, il giovane ed elegante marito di Ivanka che sussurra le indicazione giuste quando il suocero cerca la via della moderazione. Il presidente messicano ha parlato dapprima di un incontro “costruttivo”, salvo poi far sapere che la “prospettiva distorta” del candidato sul paese offende profondamente i messicani, e il Messico non pagherà per il muro, ma l’immagine dell’incontro che rimane impressa nel subconscio elettorale è quella di un Trump composto e adeguato al contesto. Vedi che sa come comportarsi quando serve!, dice il trumpista distaccato al suo compare della base urlante.
Il Trump visto qualche ora più tardi in Arizona, dove ha tenuto un discorso sull’immigrazione dal quale ci si aspettavano correzioni in senso moderato del messaggio, non ha nulla di diplomatico o governativo. Ha ribadito con forza e senza equivoci tutti i punti del suo poliziesco programma di divisioni e rimpatri, ha promesso che il muro si farà e il conto sarà recapitato dall’altra parte del filo spinato, ha annunciato la revoca senza eccezioni degli ordini esecutivi di Obama che proteggono le famiglie degli immigrati illegali, e ha rinnovato l’approccio tolleranza zero per i clandestini che commettono crimini: “I loro giorni di latitanza presto finiranno. Se ne andranno presto, se ne andranno velocemente”.
Sul rimpatrio coatto degli undici milioni di clandestini che vivono negli Stati Uniti, un pilastro ideologicamente solido ma praticamente friabile del suo programma, non ha offerto specifiche né dettagli sulle modalità di esecuzione, ma si è limitato alla ripetizione: “Chiunque è entrato negli Stati Uniti illegalmente è soggetto all’espulsione, questo è quel che significa avere leggi e avere uno stato”. Trump ha rispolverato tonalità oscure e apocalittiche che non si sentivano con tale forza dal gran discorso di Cleveland, dove si è presentato come il cavaliere oscuro che salva l’America a un passo dal baratro. “E’ così che stanno le cose. Non ci sarà un’altra opportunità: sarà troppo tardi”, ha detto a Phoenix. Vedi che non si sta affatto moderando!, dice il trumpista della base urlante, che nelle ultime settimane ha sofferto notando qualche passo indietro del candidato proprio sul tema dei rimpatri, fin qui esposto con inequivocabile chiarezza.
Qual è, dei due, il vero Trump? Il diplomatico che fa la foto con Peña Nieto o l’imbonitore dell’Arizona? Come possono convivere queste due anime contraddittorie, una estrema e caustica, l’altra duttile e dialogante? La profonda ambiguità che si è manifestata sui due lati del confine meridionale ha i tratti di un metodo. Una volta rottamato il principio di non contraddizione e messa in soffitta la coerenza ideologica, quello che rimane è una personalità senza forma che si limita a riflettere i desideri dell’elettorato, ora sottolineando un aspetto, ora valorizzandone un altro; ora facendosi campione inflessibile di proposte estreme, ora lasciando intendere di essere un vero artista del negoziato, che usa furbescamente un linguaggio fascista soltanto per atterrire l’avversario e trattare da una posizione di forza. Così, Trump dà all’uditorio la possibilità di proiettare la propria immagine su un candidato che, come i migliori attaccanti, non dà punti di riferimento alla difesa avversaria.