Le promesse sul clima assomigliano alla spedizione ambientalista incagliata tra i ghiacci
Roma. Da sempre le promesse e gli accordi tra capi di stato sul clima sono materiale per un genere giornalistico a sé, muovendosi tra politica, economia, propaganda, scienza e religione. Non fa eccezione l’ultimo annuncio, in apertura di G20, fatto dal presidente americano Barack Obama e dal presidente cinese Xi Jinping: Stati Uniti e Cina hanno ratificato l’accordo firmato a Parigi quasi un anno fa sul taglio globale alle emissioni di CO2 per contenere l’aumento delle temperature nei decenni a venire. Fermo restando che un taglio alle emissioni e più investimenti sulle energie alternative non sarebbero un male di per sé, che questo ennesimo annuncio sia soltanto l’ultima pantomima lo si capisce osservando i tempi: quasi un anno per la ratifica di un accordo che dodici mesi fa era già definito come last chance per evitare danni terribili, purché venisse attuato il prima possibile.
Non solo, uno dei due attori in scena, Barack Obama, sta per terminare il suo mandato. Promettere davanti al mondo di tagliare le emissioni mentre prepara gli scatoloni alla Casa Bianca ha sicuramente un impatto mediatico importante, ma pochi effetti pratici, anche perché la ratifica deve essere approvata dal Senato statunitense, attualmente a maggioranza repubblicana. Diversa la situazione del presidente cinese Xi, che però ha un altro vantaggio: nell’articolo 4 del documento firmato a Parigi c’è scritto che “la misura in cui i paesi in via di sviluppo dovranno effettivamente mantenere gli impegni presi nell’accordo… dovrà tenere pienamente conto del fatto che sviluppo economico-sociale e sradicamento della povertà sono priorità assolute”. La Cina – come l’India, altro grande produttore di CO2 – è a pieno titolo un paese in via di sviluppo, per cui, in nome della crescita economica e della lotta alla povertà, potrà sforare il tetto delle emissioni senza venire meno alle promesse fatte. Il solito circo, le solite promesse e i soliti applausi dei media, troppo preoccupati a dare pavlovianamente voce agli allarmi da non accorgersi che qualcosa non torna.
Da circa sei mesi, ad esempio, circola sui siti la notizia per cui l’isola di Saricef, in Alaska, sta correndo il rischio di essere sommersa dalle acque dell’Oceano Glaciale Artico, con la conseguenza che gli abitanti del villaggio di Shishmaref dovranno abbandonare presto le loro case, diventando così i primi rifugiati climatici degli Stati Uniti. La storia è grossa, ma qualcuno si è preso la briga di verificarla. L’agrometeorologo Luigi Mariani dell’Università degli Studi di Milano ha raccontato su Climatemonitor.it come il villaggio (i cui abitanti hanno votato a maggioranza per la fuga) sia stato costruito durante gli anni della corsa all’oro in un’area da sempre naturalmente affetta da fenomeni erosivi naturali, tanto che già nel 1973 – prima del global warming antropico e inarrestabile – i cittadini avevano deciso di andarsene.
Se il villaggio di Shishmaref verrà abbandonato, dunque, la colpa sarà piuttosto di chi a inizio Novecento lo edificò che non del clima che cambia. E’ quasi sempre un problema di tempismo, dunque. Fa sorridere in tal senso – più che darci indicazioni scientifiche sull’Artico, i cui ghiacci si stanno in effetti sciogliendo più del dovuto – la vicenda della spedizione Polar Ocean Challenge, partita per circumnavigare il Polo nord e dimostrare così gli effetti nefasti del riscaldamento globale sui ghiacci: pochi giorni fa la nave è rimasta incagliata tra gli iceberg.
L'editoriale dell'elefantino