Il vero problema non sono i muri alle frontiere ma l'islam politico
Il muro. Metafora oggi universale. Meriterebbe la celebre boutade del New Yorker: block that metaphor, fatela finita con quella metafora. In principio fu il muro di Berlino, e su quello siamo tutti d’accordo. Il comunismo illiberale cinse d’assedio una grande città occidentale, allora ancora occupata dalle quattro potenze vincitrici della guerra mondiale, tenendola prigioniera con la sua ricchezza e la sua sguaiataggine dorata, entro il perimetro di un possente limes costruito in una notte, roba che neanche Giulio Cesare. Fu, nel 1961 e fino al fatale 1989, un sequestro degno dell’antichità romana, molti fuggitivi vennero spietatamente abbattuti, l’esperimento diciamo così urbanistico divise e cambiò per sempre una grande capitale europea. Come simbolo della guerra fredda fu anche un oggetto fascinoso, nel suo essere sinistro. Dalle sale della biblioteca del Prussischer Kulturbesitz, me lo ricordo bene, il profilo del cemento che attraversava la Potsdamer Platz feriva ma attraeva. Le tribune di legno innalzate come patiboli dagli occidentali per guardare oltre die Mauer, nella voragine della schiavitù comunista orientale, erano rostri del mondo libero affacciati sul nullismo del regime antiumanista. Senso del mistero, mistero della storia e dell’iniquità, e uno sguardo sull’abisso del comunismo realizzato: mica male come simbolo, sia quando fu elevato a protezione di un sistema utopico regressivo ancora oggi stupidamente popolare tra tanti, sia quando fu scassato da folle festanti. Comunque, quel muro valeva la metafora. Ed è l’origine lontana della decisione di abbattere le frontiere da parte della figlia del pastore protestante dell’Est divenuta cancelliera della Germania riunificata.
Ma gli altri, i muri di adesso? Israele difende la sua sicurezza, benedetto muro. L’Ungheria difende la propria integrità, perché non ce la farebbe a sostenere l’assalto. Trump ne fa una parola d’ordine virtuale e lo vende come un prodotto sul mercato della politica presidenziale americana, lo vuole bello e pagato dal Messico. Buoni ultimi, last but not least, arrivano i britannici, che difendono la via da Calais a Londra. Come? Con un muro. Non è casuale. E’ che la metafora dipende anche dalle circostanze, e se vuol dire frontiera, in senso legale e non razzistico moralistico, ha un senso. Good fences make good neighbours: anche questa è un’espressione metaforica, e vuol dire che i confini ben delimitati evitano i conflitti. Avete visto quello che sta succedendo in Corsica, dove gli ex italiani vendicativi prendono a pedate e a coltellate immigranti indesiderati, clandestinamente sbarcati e vogliosi di installazione. E la follia delle delibere antiburkini, che dovrebbero obbligare i vigili a spogliare nude le donne che li indossano in spiaggia, nasce anch’essa da una sorta di rivolta popolare contro l’abbattimento delle frontiere. Uno fa del multiculturalismo alla francese, cioè comunitarista e assimilazionista, e il comico del mattino alla radio con la pronuncia di un marocchino ben mimata dice: ma devo fare una cura di disintossicazione da me stesso per vivere in Francia?
La faccenda in generale non si risolverà mai in Europa o negli Stati Uniti, la sua radice è lì dove nasce l’islam politico, ed è lì che bisogna cambiare le cose con la diplomazia, l’economia, la politica e la guerra. Nel frattempo è consigliabile, anche per il Papa che ci ha provato con Trump (“non è cristiano”) e ora rischia la gaffe delle gaffe, se agli elettori gli scappasse proprio Trump, di bloccare quella metafora su muri e frontiere, che è diventata troppo facile.