Il viaggio in Asia di Obama mostra quanto scricchiola il Tpp
Roma. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha dedicato gran parte della sua visita in Laos, paese del sud-est asiatico che accoglie un presidente in carica per la prima volta nella storia, a difendere il Tpp, l’accordo di libero scambio tra l’America e altre undici nazioni del Pacifico. Il Tpp è il braccio economico di quel “pivot asiatico” che è il fulcro della strategia in politica estera dell’Amministrazione americana, e parte fondamentale dell’eredità politica del presidente, ma che da mesi giace in attesa di un’approvazione ormai sempre più improbabile del Congresso, mentre il mandato obamiano è agli sgoccioli e gli alleati si spazientiscono. Ieri, parlando in Laos a un gruppo di giovani leader asiatici, Obama ha detto di aver fiducia che alla fine il Tpp (a cui il Laos non partecipa) sarà ratificato “perché è la cosa giusta da fare”. “Siamo in una stagione elettorale ed è difficile portare avanti le cose”, ha detto. Ma “dopo le elezioni, la gente potrà concentrarsi di nuovo sul perché è così importante”. Obama sembra avere ormai rinunciato al tentativo disperato di far approvare il Tpp entro la fine del suo mandato: la maggioranza repubblicana al Congresso è agguerrita contro di lui, e perfino i democratici sono tiepidi all’idea. Il problema però è che il suo successore, chiunque esso sia, ha già promesso ai suoi elettori potenziali che affosserà il Tpp appena arrivato alla Casa Bianca: non solo Donald Trump, allergico ai trattati di libero scambio, ma perfino la fedele Hillary Clinton.
Insieme al Tpp, è tutto il pivot asiatico, uno dei più importanti cambiamenti strategici della storia americana recente, a essere messo in dubbio. Il viaggio in Asia di Obama, l’ultimo della sua presidenza, avrebbe in questo senso dovuto cementare l’accordo come cosa fatta e porre le basi per le modalità future della presenza americana nel Pacifico, ma si è risolto in una delusione. Come ha scritto il New York Times, Obama è stato accolto come un’anatra zoppa da alleati e avversari consapevoli che gran parte delle sue teorie geostrategiche nella regione saranno messe in discussione dal suo successore. A questa si è aggiunta quella che il Times ha definito “sfortuna”, decisamente eccedendo in candore. Il G20 di Hangzhou è iniziato con il piccolo scandalo del tappeto rosso negato al presidente al momento della sua discesa dall’aereo (un errore procedurale, dicono i cinesi; uno sgarbo calcolato, temono gli americani) e si è concluso con le occhiatacce con Vladimir Putin. Del presidente filippino Rodrigo Duterte e di quel “figlio di puttana” apparentemente improvvido – ma per molti attentamente studiato – sappiamo già tutto, ma è necessario ricordare che per i piani dell’Amministrazione avere prima annullato il vertice tra i due capi di stato e poi rimediato goffamente con un incontro informale e a porte chiuse, è un problema ben più grosso della maleducazione colorita di Duterte. Fin dalla sua elezione a maggio il presidente filippino ha cercato di ribilanciarsi verso la Cina, la superpotenza che incombe su tutta la regione, e avere in Manila un partner meno affidabile per Washington è una perdita gravissima. Il fulcro del viaggio asiatico di Obama è così diventato il Laos, dove il presidente partecipa alla riunione dell’Asean, l’Associazione della nazioni del sud-est asiatico, in un clima sempre più scettico nei confronti di Washington. Con il pivot e il Tpp sempre più minacciati, nel suo ultimo viaggio in Asia Obama sembra così un nuotatore controcorrente in quella marea della globalizzazione che, come ha scritto ieri Martin Wolf sul Financial Times, si sta ritirando.