Tra i segreti della Brexit
Poi il mondo non è finito, la paura c’è ma non ha spazzato via tutto, i predicatori di sventure incurabili e inarrestabili hanno rallentato il flusso di denuncia di sventure. La Brexit è arrivata, inaspettata e crudele, la politica britannica è rimasta per qualche tempo ammutolita e mutilata, l’Europa ancora non è riuscita a prendere coscienza del divorzio, gli effetti a lungo termine sono inintelligibili, ma la catastrofe immediata non c’è stata (quella che sosteneva anche l’ex cancelliere dello Scacchiere, George Osborne, che soltanto un anno fa era il politico dell’anno e che ora è dileggiato in maniera niente affatto simpatica, ed è tornato a vivere a casa dei suoi). Si dirà: per forza, non c’è ancora stata la Brexit. Certo, non conosciamo neppure i tempi della separazione, figurarsi se possiamo prevederne le conseguenze, noi che le previsioni le maneggiamo così male soprattutto quando le mescoliamo alle nostre speranze, ma secondo le stime ampiamente circolate a giugno già oggi gli inglesi avrebbero dovuto essere in piena crisi, pronti a vendersi qualsiasi cosa pur di poter cancellare l’esito referendario. Invece negli ultimi giorni Goldman Sachs ha aumentato la sua stima della crescita del pil britannico dallo 0,2 allo 0,9 per cento: grazie agli stimoli monetari e fiscali, “ora ci aspettiamo che l’economia inglese eviti anche la ‘recessione tecnica’ che avevamo previsto appena dopo il referendum”, hanno spiegato gli analisti della banca d’investimento. Morgan Stanley ha scritto in un report pubblicato martedì che si aspetta che l’economia britannica cresca dell’1,9 per cento invece che dell’1,2 stimato a giugno, e anche Credit Suisse non rileva più una contrazione economica per il 2017. “Inizialmente ci aspettavano una reazione immediata al voto per il ‘leave’ – hanno spiegato gli economisti di Morgan Stanley – ma in pratica la reazione si è attenuata, o rapidamente rovesciata. Ma l’attuale resistenza potrebbe essere danneggiata nel tempo dalle aziende che sospendono investimenti e assunzioni”. Ieri una piccola doccia fredda è arrivata in mezzo a una settimana invero confusa: i prezzi delle case sono scesi dello 0,2 per cento, la manifattura si è contratta dello 0,9 per cento, entrambi i dati sono inferiori alle aspettative. In più, secondo l’Istituto di statistica, la svalutazione della sterlina non ha (ancora) avuto un effetto positivo sull’economia (dopo una settimana di rafforzamento della valuta britannica, ieri c’è stata una nuova, preoccupante altalena). L’economista dell’Hsbc Elizabeth Martins ha precisato che è prematuro stabilire oggi con sicurezza il fatto che il Regno Unito abbia reagito bene alla Brexit. Paul Krugman, Nobel per l’Economia ed editorialista del New York Times, gioisce sul suo blog perché aveva predetto che nel breve periodo non ci sarebbero state conseguenze irrimediabili alla Brexit, ma avverte: nel lungo periodo sì, non mettetevi adesso a fare gli sbruffoni. Non c’è certezza sui piani di investimento e soprattutto non c’è certezza sul tipo di accordo che il governo inglese riuscirà a negoziare con l’Unione europea.
Già, l’accordo. Nonostante i tanti annunci e le tante dichiarazioni che il governo di Theresa May rilascia con una certa facilità, ancora non si è in grado di dire che genere di Brexit abbia in mente Londra. Siamo appesi a quel “Brexit means Brexit” che la May disse entrando a Downing Street: era una rassicurazione per i sostenitori dell’uscita dall’Ue che temevano un governo di rimpianti, ma nonostante le pressioni interne e internazionali ancora non siamo in grado di stabilire nemmeno i fondamentali dei negoziati. Anzi, se un’evoluzione in questi mesi c’è stata non è verso la trasparenza, come commenta Andrew Sparrow del Guardian: “Siamo ora al punto che ‘Brexit means – we won’t say’”, non ve lo diremo. Chissà se la May sa che cosa fare o se, come i giornalisti e gli elettori, vive nel mistero. L’unica certezza è che la promessa di Mark Carney, governatore della Banca d’Inghilterra, è stata mantenuta: faremo tutto il necessario, disse appena dopo il referendum, e così è stato. Dopo gli stimoli annunciati ad agosto, incluso il primo taglio dei tassi da sette anni a questa parte, Carney ha testimoniato ieri davanti alla commissione del Tesoro in Parlamento e come prima cosa ha dovuto difendersi dall’accusa di essere stato troppo catastrofico – assieme ai tanti altri gufi – nel delineare le conseguenze di un’eventuale Brexit (prima del referendum, Carney aveva più volte enunciato i suoi timori riguardo all’uscita dall’Ue, ma dopo il referendum, mentre la politica implodeva, è stato lui a fare da padre della patria e a curare un popolo sotto choc). Carney è “assolutamente sereno”, dice, sulle sue previsioni, il crollo è stato evitato grazie alle misure eccezionali adottate dalla Banca d’Inghilterra – che è come dire: ringraziatemi, invece che accusarmi – ma è ingenuo pensare che la tempesta sia passata. “La crescita è quasi la metà di quella che era proiettata prima del referendum”, spiega Carney, non c’è bisogno di una recessione per comprendere che una Brexit non passa senza lasciare tracce. Semmai questo è il momento di insistere con gli stimoli e di far sì che il Regno Unito possa presentarsi al negoziato con gli europei con una buona dose di forza.
Tanto Carney è preciso e meticoloso, tanto la politica, che del negoziato si occupa direttamente, continua a balbettare e a contraddirsi: “ducking”, schivare, è il termine che più si ripete nei commenti alle dichiarazioni del premier May. Con la riapertura dei lavori parlamentari dopo la pausa estiva, il ministro per la Brexit, David Davis, lunedì ha tenuto un discorso ai Comuni che, nelle attese, avrebbe dovuto fornire elementi precisi su come si svolgerà il negoziato con l’Ue. Davis, che non è un uomo molto carismatico, ha elogiato la forza del paese di fronte alla Brexit, avendo alla mano dati rassicuranti, ha ribadito che Londra è in una posizione di forza, che le trattative non saranno sulla difensiva, e ha specificato – unico dettaglio che importa in un intervento altrimenti sostanzialmente inutile – che ritiene “molto improbabile” che il Regno Unito resti nel mercato unico se il suo obiettivo è di contenere l’immigrazione. Il dilemma è tutto qui, come si sa: il mercato unico prevede libertà di circolazione, non si possono creare eccezioni a meno che non si crei uno status inedito nei rapporti con l’Ue.
L’unico dettaglio che ha fatto esultare i falchi della Brexit, e ha depresso ancora di più chi ancora spera in un secondo referendum riparatore, non era un dettaglio, “era un’opinione del ministro”, ha detto il boss, il premier May, che da mesi si esibisce in un equilibrismo che inizia a risultare indifendibile anche ai suoi (tanti) estimatori. May ha preso le distanze da Davis, ha detto che il ministro non parlava a nome del governo ma esprimeva sue impressioni (come rappresentante dell’esecutivo davanti ai parlamentari?) e che al momento non c’è nulla di molto probabile o di molto improbabile, si sta ancora valutando quale sia la soluzione che meglio protegge l’interesse britannico. Non esiste un modello svizzero o norvegese, ha detto May ieri durante il “Question Time” ai Comuni, esiste un “modello inglese” che ancora però non ha preso forma. O se l’ha presa, noi non lo sapremo fino a che non lo vuole Theresa. Il premier è piuttosto secco quando dice che non rivelerà nulla del negoziato “in modo prematuro”, e che deciderà indipendentemente dal Parlamento qual è il momento giusto per far scattare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona che apre il processo di separazione dall’Ue.
Non è la prima volta che la May smentisce pubblicamente un suo ministro. E’ successo qualche giorno fa – sì, è un rientro complicato – con Boris Johnson, attuale ministro degli Esteri e da sempre gran sostenitore del modello a punti australiano per controllare l’immigrazione. May non è d’accordo, ha detto che quel modello è una delle opzioni, ma non la sua e che quindi con tutta probabilità non sarà adottato. Non aveva ancora finito di parlare che i falchi della Brexit si erano già messi a commentare inviperiti: Nigel Farage, ex leader dell’Ukip che continua a far parlare di sé nonostante le dimissioni, salendo sul carrozzone di Donald Trump (e facendosi crescere i baffi) ha detto che il governo tradisce il suo popolo, che gli inglesi hanno votato per la Brexit a causa dell’immigrazione incontrollata e che se questa non viene contenuta, allora non fate neppure finta di voler dar ascolto all’esito referendario. Le dichiarazioni di Farage si accavallavano sugli schermi delle tv inglesi alle immagini provenienti da Calais, la “giungla” che ospita 10 mila migranti accanto alla strada che conduce al porto che fa da frontiera tra il Regno Unito e l’Europa (via Francia, che è nervosissima). I camionisti hanno scioperato dopo che i migranti hanno iniziato a costruire dei reticoli che servono per fermare i camion e fanno da trampolini per gettarsi dentro i veicoli e provare a passare di là, nell’ambita Albione, ultimo espediente che segue gli attacchi ai camion con barre di ferro: ogni autista rischia una multa di quattromila sterline se viene trovato con un migrante clandestino a bordo (secondo stime del governo di luglio, viene trovato un migrante clandestino ogni sei minuti). In poche ore il traffico è tornato normalmente confuso, ma anche i cittadini di Calais sono scesi per le strade al grido “J’aime Calais”, però chiudete quella giungla. Ieri mattina il governo inglese ha annunciato l’inizio dei lavori per la costruzione di un muro sulla strada che conduce al porto – correrà su una lunghezza di circa un chilometro e sarà alto quattro metri, è già stato ribattezzato “The Great Wall of Calais” – che sarà terminato entro la fine dell’anno. Accanto sarà definita un’area sicura destinata a duecento camionisti che sono costretti a fermarsi al porto o all’ingresso dell’Eurotunnel (l’ordine delle compagnie di trasporto agli autisti è: non fermatevi mai, per nessuna ragione, tirate dritto e non badate a nient’altro, ma è ovvio che non è possibile).
Se il modello a punti plasmato su quello adottato dall’Australia non è valido, un’alternativa ancora non è stata definita. Dopo la smentita della May alcuni giornali hanno scritto che l’ipotesi allo studio prevede che si possa entrare nel Regno Unito soltanto se si è già in possesso di un contratto di lavoro – un modello ancora più rigido di quello previsto dall’Australia. Al solito i falchi hanno festeggiato e le colombe si sono allarmate, mentre alcune aziende hanno ricominciato a dire che saranno costrette ad aprire altre sedi in Europa se le condizioni di lavoro per i cittadini europei si modificano in modo tanto radicale.
May non ha intenzione di fermare questo balletto estenuante. Sul Financial Times, Sebastian Payne spiega che il premier potrebbe avere ragione, e che è necessario concederle il beneficio del dubbio ancora per un pochino: non è una scelta folle quella di voler scoprire le proprie carte in modo lento e durante gli incontri privati con i leader europei. David Cameron, il suo predecessore, fece l’esatto contrario e abbiamo visto come è andata. Certo, bisogna avere molto acume politico per gestire una strategia del mistero perché, come diceva Mike Tyson, “tutti hanno un piano prima di prendersi un pugno in faccia”, ma gli studiosi della May dicono che lei ha dimestichezza con la questione: è ermetica da sempre, imperscrutabile da sempre, il mistero è il suo mestiere. Al G20 in Cina, il premier inglese ha fatto il suo esordio sulla scena internazionale, vestendo i panni della fiera paladina della crescita e della globalizzazione, premessa indispensabile per rilanciare il Regno Unito separato dall’Europa. I più gioiosi nell’accoglienza sono stati gli australiani, rapidi nel dichiarare che sono pronti a stringere patti commerciali diretti con Londra non appena sarà possibile: la partnership è forte, lo status dei rapporti con il resto dell’Europa non importa granché al governo di Canberra. Ma mentre il capo della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, sgridava piccato gli inglesi – non potete fare accordi singolarmente finché siete ancora dentro l’Ue: prima ci separiamo e poi andate a vivere con chi vi pare – gli americani e i giapponesi raffreddavano l’aspirazione di libertà della May. Barack Obama, presidente degli Stati Uniti, ha ribadito quel che già aveva detto nella sua infausta visita londinese prima del referendum: fuori dall’Ue, il Regno Unito va in fondo alla fila dei negoziati commerciali. Si tratta di una minaccia politicamente motivata – restate nel mercato unico europeo, e poi vediamo – ma essendo Obama a fine mandato e avendo l’America in questo momento gravi problemi nella sua politica commerciale globale – trema il Tpp, collassa il Ttip – è facile immaginare che, una volta che la Brexit ci sarà, la strategia di negoziati diretti sarà completamente rivista. I giapponesi hanno pubblicato un memo di 15 pagine spiegando che cosa si aspettano dalla Brexit, sdoganando il concetto di Brexit “buona” – o soft, ma buona dà più il senso delle aspettative – cui aspirano molti paesi nel mondo. Tokyo non fa la minacciosa ma ribadisce che l’adesione del Regno Unito al mercato unico non dovrebbe essere in discussione. La questione centrale resta questa, ma in un momento in cui tutti gli accordi commerciali multilaterali sembrano vivere la loro stagione del discontento, cresce il partito dei falchi: negoziare da soli è comunque più facile. L’Europa guarda atterrita a Londra, il commissario europeo nominato per i negoziati sulla Brexit, il francese Michel Barnier tanto inviso agli inglesi, dice di essere pronto a negoziare anche domani, “non chiedetemi però dove porta una strada su cui ancora non abbiamo camminato”: Bruxelles vorrebbe fare la voce grossa ma non ha fiato, e nell’immaginario continentale la May risulta dipinta sempre più con colori arcigni e quasi sadici. Crollata la speranza di poter far finta di nulla ormai si spera solo che la May non sia come la disegnano, e quando i retroscena raccontano che la signora è tornata dalla Cina allegra e di buon umore, la risposta esausta di chi questa separazione potrà soltanto subirla è: che almeno sia una Brexit buona.