Trump, un eroe inconsapevole per fermare l'egemonia culturale marxista
New York. Paul Gottfried sostiene con trasporto Donald Trump senza essere un suo adepto: “Lo appoggio innanzitutto perché non c’è nulla di meglio, e poi perché la sinistra lo odia con una ferocia inaudita. Se lo disprezzano così tanto, sicuramente deve aver qualcosa che s’accorda profondamente con la mia sensibilità”, dice al Foglio l’intellettuale americano. Cosa sia precisamente questo qualcosa che solletica gli umori di una destra antica e sotterranea, che accusa l’establishment di Reagan e dei Bush di aver tradito i veri ideali conservatori, è l’oggetto dell’indagine di Gottfried, filosofo e storico che ha coniato il termine “paleoconservatore” per rimarcare la differenza con gli odiati neoconservatori, i figli intellettuali di Leo Strauss. Gottfried è un eminente rappresentante della corrente repubblicana che negli ultimi sessant’anni è stata progressivamente costretta a una vita catacombale e minoritaria. Sono i discendenti della Old Right isolazionista, anti imperialista e contraria alla vocazione universalista e messianica dell’America, raccolti intorno a figure politiche come Pat Buchanan, ispirati da intellettuali passati di moda come Samuel Francis, Thomas Fleming, Eugene Genovese, Murray Rothbard e ancora prima H. L. Mencken, il “saggio di Baltimora” che considerava la democrazia la forma di governo in cui “gli sciacalli adorano gli asini”.
L’unico rappresentante di questa persuasione conservatrice che è stato bagnato dal successo politico è Richard Nixon, e si sa poi com’è andata a finire. Non a caso, l’ex presidente è stato amico di Gottfried e pure della famiglia Trump, con la quale condivideva la passione per un predicatore di Manhattan che promulgava una versione urbanizzata del Vangelo della Prosperità. Se i neocon atterriti da Trump o passati direttamente “with her”, alla corte di Hillary, sono stati l’avanguardia cosmopolita del movimento conservatore, i paleocon ne sono la retroguardia nostalgica. E nella retroguardia qualcuno vede in Trump il grande restauratore delle idee della destra diroccata. Gottfried è più cauto: in “The Donald” vede un involontario uomo della provvidenza che “si è dato come missione politica quella di fermare la sinistra”. “In America il marxismo – spiega Gottfried – non si è affermato nella sua forma economica, ma come egemonia culturale: la sinistra intellettuale è imbevuta delle nozioni di uguaglianza e internazionalismo, che sono portati del marxismo. Ecco, Trump promette cose molto confuse, ma unite dalla promessa di dedicarsi alla distruzione di questa cultura, della quale questo paese rappresenta purtroppo l’avanguardia”.
75 anni, autore prolifico, professore per una vita all’Elizabethtown College e raffinato poliglotta (parla un italiano colto e con accento impercettibile, giura che è il frutto di “tre mesi a Firenze cinquant’anni fa” e che il suo francese e il tedesco sono decisamente migliori), Gottfried si è dedicato innanzitutto allo studio dell’influenza dell’idealismo tedesco nella formazione della cultura americana, rintracciando nella filosofia di Hegel il fulcro della mentalità che alla fine della Guerra fredda ha portato Francis Fukuyama a proclamare la “fine della storia”. C’è un elemento inestirpabile in questo progressismo ottimista squisitamente americano: “L’eccezionalismo messianico e apocalittico è talmente radicato nel carattere americano già dal tempo dei puritani che è impossibile da estirpare del tutto”.
Paul Gottfried (immagine di Youtube)
Ciò che è possibile, forse, è un ritorno repentino ai valori della “classe operaia bianca” che più di ogni altro gruppo è sensibile ai richiami del nazionalismo, contro le sirene globaliste: “L’America è attraversata da profondi conflitti culturali, economici e razziali, e il fenomeno di Trump segnala che queste divisioni sono ormai esasperate. La gente ama questo candidato che si muove nel solco del populismo di destra, credo che in questa zona depressa della Pennsylvania fuori dal campus il 99 per cento della gente sia dalla sua parte, ma non lo votano in nome di una certa impostazione politica oppure per un eventuale revival di ideali nazionalistici. Lo votano perché non c’è lavoro, perché il settore manifatturiero è calato di due terzi dagli anni Novanta, perché si sta sgretolando un tessuto sociale, perché i mitizzati accordi di libero scambio non sono affatto liberi, ma sono accordi fra potenze per massimizzare gli interessi delle grandi corporation, e questo gli operai lo sanno senza bisogno di manuali di politica”.
Per Gottfried è stata la candidatura fallimentare di Mitt Romney, incarnazione della finanza plutocratica, ad aprire definitivamente le porte al revival populista e antielitario di Trump: “Qualcosa nel panorama repubblicano sta cambiando, e si tratta di una dinamica storica, non soltanto di un episodio. In questo momento il cambiamento si manifesta sotto forma di un voto di protesta che ha come protagonista la classe operaia bianca, che continua a essere la spina dorsale della cultura americana”. Non è strano, per Gottfried, che fomenti una rivolta della working class dai palazzi dorati di Manhattan e dalle ville pacchiane della Florida, ché “gli idoli del popolo sono sempre ricchi, e il più ricco di tutti era Roosevelt”. Il segreto, dice, “è che quando parla non sembra ricco”.
E Trump ha ricette politiche convincenti per questo elettorato? “E’ difficile capire cosa pensa. Prendiamo l’immigrazione: tutti dicono che è contrario all’ingresso di stranieri, ma poi basta sentire un suo discorso per capire che è contrario all’immigrazione illegale, che è una cosa ben diversa. Di certo talvolta dice cose diverse da quelle proposte dal consenso internazionalista”. Se l’ascesa di Trump segni anche il tramonto dei neocon è un’ipotesi che solletica Gottfried, pur senza convincerlo: “Io lo spero, ma la realtà è che occupano ancora posti di potere, controllano ancora giornali, think tank, aziende. Gesù diceva che i poveri saranno sempre con voi, e io purtroppo dico lo stesso dei neocon: saranno sempre con noi”.
Dalle piazze ai palazzi