Noi e la guerra al terrore
L'Italia scommette su Tripoli e manda medici contro l'Isis in Libia
Roma. Oggi alle Commissioni parlamentari si discute l’invio di duecento paracadutisti italiani e di cento medici e infermieri in Libia, ma il contingente militare si sta già imbarcando su una nave anfibia nel porto di La Spezia, dice al Foglio il direttore della Rivista Italiana Difesa, Pietro Batacchi, e questo è un segno che la missione è già cominciata. Parte una compagnia di veterani del 186esimo reggimento Folgore di stanza a Siena, già testata in missione in Afghanistan, che fornirà sicurezza a un ospedale da campo di tipo Role 2, vale a dire la prima postazione sanitaria dotata di sale operatorie che si può incontrare al di fuori di una zona di combattimento. In questo momento i battaglioni di Misurata stanno ancora lottando contro un ultimo manipolo di guerriglieri dello Stato islamico asserragliato in un distretto di Sirte. Da quella linea di fronte, oggi i feriti sono prima portati in un ambulatorio a quindici minuti di strada per essere stabilizzati alla bell’e meglio, e poi sono trasferiti duecento chilometri più a ovest a Misurata per essere curati. Se i battaglioni stanno consumando così tanto tempo a vincere la resistenza dello Stato islamico dentro Sirte è anche perché sono costretti a seguire il ritmo dell’ospedale di Misurata e dei suoi circa 150 posti: finché i letti del ricovero non si svuotano, ogni nuova offensiva deve aspettare. Anche per questo, l’operazione che a giugno doveva liberare Sirte “in due giorni”, come disse il portavoce militare, si è trascinata fino a oggi. L’aiuto italiano è stato pensato per risolvere questo problema e fa parte di uno schema di assistenza nella lotta allo Stato islamico che è ormai un classico: gli Stati Uniti ci mettono i raid aerei (hanno colpito 253 postazioni dello Stato islamico tra il 1° agosto e l’8 settembre) e l’Italia ci mette un altro tipo di supporto, per esempio in Iraq le missioni di ricognizione e l’addestramento e in Libia medici e un ospedale da campo. Misurata è una città relativamente tranquilla che in un anno di vicinanza con lo Stato islamico ha subìto soltanto due attacchi. Da mesi un contingente di Forze speciali italiane è in zona – la vicina base aerea è il luogo più probabile. E’ indubbio che la presenza di soldati stranieri rappresenta un incentivo agli attacchi.
L’intervento italiano al fianco del governo del premier designato Fayez al Serraj (che guida il governo di Accordo nazionale, Gna, a Tripoli) arriva in un momento critico per tutta la Libia. L’arrivo di medici e parà era inteso come gesto di buona volontà per far vedere che c’è appoggio internazionale contro lo Stato islamico, ma il paese sta correndo verso uno scenario da guerra civile. Nelle ultime quarantott’ore le forze del generale Khalifa Haftar, che comanda nell’est del paese, hanno attaccato i quattro principali terminal del greggio della Libia, che dal punto di vista geografico sono piazzati al centro, circa a metà strada tra l’est e l’ovest, e dal punto di vista economico sono una risorsa fondamentale se e quando la produzione tornerà a livelli buoni. I terminal non erano sotto il controllo del governo di Tripoli, ma di una terza parte, un potente locale che si chiama Ibrahim Jadran. Ma è inevitabile che Tripoli legga l’occupazione dei terminal, attorno a cui si combatte ancora, come una dichiarazione di guerra. Per ora reagisce in modo bellicoso, ma soltanto a parole.
Il governo italiano ha sponsorizzato un piano di pace – appoggiato anche da Nazioni Unite e Amministrazione Obama – che a dicembre è culminato in un incontro internazionale a Roma e che dovrebbe portare alla riconciliazione tra l’est e l’ovest sotto la guida di al Serraj. Ora, il fatto che il generale Haftar – appoggiato da Egitto e Francia – prenda con la forza i porti del petrolio è un messaggio inequivocabile: il piano non esiste più. Lo Stato islamico in questo momento è in crisi: ma se ci sarà un nuovo round di guerra civile, se ne avvantaggerà.