Il rodaggio è finito, non siamo più gli scolaretti dell'Europa, ci dice un suggeritore del governo ungherese

Matteo Tacconi
Il Trattato di Lisbona e le élite di Bruxelles hanno distrutto tutto, spiega Balázs Orbán. Le idee del Gruppo Visegrad e quel che viene scambiato per euroscetticismo.

Budapest. Non c’è mai stata la regola dell’unità, ma il Gruppo Visegrad (detto V4) ha sempre modellato traiettorie comuni. Nato nel 1991, e allora c’era ancora la Cecoslovacchia, questa foto di dialogo informale è stato il salotto dove Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia, coordinandosi tra di loro, hanno affrontato passaggi epocali, come la transizione al capitalismo, l’adesione all’Alleanza atlantica e quella all’Unione europea. L’ancoraggio a occidente non ne ha archiviato la storia. I suoi soci hanno continuato a riunirsi, a scambiare idee e tentare di vedere il mondo con le stesse lenti. 

 

La crisi ucraina ha creato divaricazioni mai viste prima. La Polonia ha sostenuto senza riserve il Maidan, la piazza pro Europa, l’Ungheria e la Slovacchia hanno criticato aspramente le sanzioni europee alla Russia, la Repubblica ceca ha oscillato tra i due poli. Molti hanno detto: è la fine del Gruppo Visegrad.

 

Poi è arrivata un’altra crisi, quella dei rifugiati. E l’Europa centrale ha trovato la colla con cui fissare le spaccature. L’Ungheria ha chiuso il confine con la Serbia, e dunque la rotta balcanica. Nessuno da queste parti ha mai creduto al “Wir schaffen das” (ce la possiamo fare) della cancelliera tedesca Angela Merkel, e c’è stata una rivolta contro quote europee per la redistribuzione di 160 mila rifugiati tra i paesi membri. Bratislava ha impugnato legalmente la questione presso la Corte europea di giustizia. Viktor Orbán, in Ungheria, ha organizzato un referendum (il 2 ottobre). E Jaroslaw Kaczynski, l’uomo forte di Varsavia, ha fatto sapere che non rispetterà gli impegni presi dal precedente governo liberale, che alla fine aveva votato sì alle quote, ma soltanto per non rompere con Berlino e Bruxelles.

 

La Brexit è un altro fattore che compatta. Il timore è che l’Europa a 27 scelga soluzioni più federaliste, mentre Orbán, Kaczynski e gli altri vogliono l’opposto: più sovranità agli stati. Ed è questo che verrà ribadito al vertice europeo di Bratislava di questo venerdì, organizzato dalla presidenza di turno slovacca dell’Ue. “Nella nostra regione si pensa che l’equilibrio tra stati e Ue, come entità sovranazionale, sia collassato. Per un certo periodo ha funzionato, ma il Trattato di Lisbona e l’atteggiamento delle élite di Bruxelles hanno distrutto tutto. L’obiettivo è ristabilire la precedente cornice”, spiega al Foglio Balázs Orbán, tra i principali fornitore di idee del governo ungherese. Dirige la ricerca a Századvég, think tank conservatore, ed è il responsabile del Migration Research Institute di Budapest, creato un anno fa.

 

Il vertice di venerdì, spiega Balázs Orbán (nessuna parentela con il primo ministro magiaro), è un passaggio importante per l’Europa centrale, che si presenterà con una posizione comune. “La crisi dei migranti, che a nostro avviso causa problemi enormi nell’Europa occidentale, e non è gestibile né sostenibile, non è la sola questione su cui i nostri governi si trovano d’accordo. La pensiamo allo stesso modo su altri temi europei: politica di coesione, finanza e trattati (Kaczynski propone di riscriverli). E siamo per il rafforzamento dei Parlamenti nazionali”. C’è anche la convinzione che sia giunto il momento di lasciare le retrovie. “Siamo membri europei dal 2004. Il rodaggio è finito. Non siamo più osservatori o scolari. Vogliamo esplicitare la nostra opinione sull’Europa e influenzare il dibattito”.

 

Per molti, però, l’Europa centrale sta andando ben oltre. La Polonia è impegnata in una durissima contesa con la Commissione europea sullo stato di diritto, originata dalla riforma del Tribunale costituzionale voluta da Kaczynski. La Commissione l’ha criticata, chiedendo di ammorbidirla. Varsavia non vuole saperne. Ritiene che sia un suo affare interno, e che Bruxelles non debba interferire. Quanto all’Ungheria, il referendum del 2 ottobre, in cui gli ungheresi diranno chiaramente no alle quote (non è certo però che si arrivi al quorum del 50 per cento), viene percepito come un precedente pericoloso, che potrebbe diffondere la convinzione che l’Europa possa essere sfidata, e battuta, da un paese membro. “Le nostre posizioni vengono scambiate per euroscetticismo. Nulla di più sbagliato”, dice Orbán. In Polonia e Ungheria, i due “ragazzi cattivi” dell’Ue, due paesi i cui leader hanno trovato una certa chimica, c’è un sostegno forte all’Europa. Ma è così anche in Slovacchia. L’eccezione è Praga. “Noi ungheresi siamo orgogliosi di esserne parte, ma al tempo stesso vogliamo contribuire a cambiare l’Europa”. E possibilmente anche la leadership politica a Bruxelles, secondo Balázs Orbán. “Questa leadership, almeno”.

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