“Trump sta depurando il Partito repubblicano dalle infiltrazioni liberal”
New York. Il giornale Chronicles of Culture è nato negli anni Settanta per “protestare contro la perversione della cultura americana da parte di quello che chiamiamo la Cultura Liberale”, come scriveva il suo primo direttore, Leopold Tyrmand, un romanziere polacco emigrato negli Stati Uniti nel 1966. Tyrmand aveva scritto per diversi anni sul New Yorker, ma quando è stato chiaro che il suo anticomunismo viscerale non gli avrebbe procurato una carriera scintillante in quella che allora era nota come “la città più occidentale dell’Unione Sovietica”, ha trovato rifugio in una cittadina della rust belt a un paio d’ore da Chicago.
A Rockford si era costituito un laboratorio del pensiero conservatore che si opponeva ai “liberal assaliti dalla realtà”, gli usurpatori neocon urbanizzati e cosmopoliti che per ammissione del suo stesso fondatore, Irving Kristol, abbracciavano l’antropologia liberal come premessa del loro conservatorismo.
Eresia inaccettabile per i conservatori ortodossi che presto, grazie all’intellettuale Paul Gottfried, avrebbero assunto il prefisso “paleo” per sottolineare la distinzione. Sono stati però i figli di Kristol, e non di Tyrmand, a ingigantire la loro influenza presso il Partito repubblicano, trasformando la vivace compagine di Rockford in una retroguardia reazionaria sempre più insulare, con Chronicles ridotta a una fanzine intellettuale per un manipolo di abbonati che la seguivano con attaccamento religioso. Le campagne elettorali matte e disperate di Pat Buchanan negli anni Novanta, il decennio prospero e sventurato per eccellenza agli occhi dei “paleocon”, hanno dato nuova linfa a questo pensatoio decentrato, salvo poi riprecipitarlo nel dimenticatoio con l’avvento della presidenza di George W. Bush, idolo dei neoconservatori internazionalisti e idolo polemico dei loro avversari. Donald Trump è la vendetta a lungo attesa, l’improvvido uomo della provvidenza.
Le idee che Chronicles continua a promuovere anche oggi sono quelle della vecchia destra, quella che era in voga prima degli anni Cinquanta, quando William Buckley e la sua National Review hanno preso a modellare le idee del Gop, gettando le premesse del reaganismo: isolazionismo e “America First”, battaglie protezioniste, negazione dell’eccezionalismo americano, risoluta chiusura dei confini nazionali e coltivazione di una visione tradizionale su vita, matrimonio e famiglia sono i capisaldi di questo pensiero intimamente nazionalista.
Come altri intellettuali di quella schiatta, anche Scott Richert, attuale direttore di Chronicles, vede Trump come il campione di un processo di restaurazione di un antico ordine repubblicano. E’ l’uomo che, con tutte le cautele e i distinguo del caso, “potrebbe portare a compimento la ribellione incompiuta di Buchanan e del Reform Party”. Al Foglio Richert spiega che il Partito repubblicano, nella sua tradizione più pura, “non è animato né sostenuto da un’ideologia, ma da alcune idee fondamentali tenute insieme dal pragmatismo”. Gli anni di Reagan offrono uno spaccato della degenerazione: “Nel primo mandato Reagan ha promosso dazi per proteggere l’economia interna e aveva messo a punto una legge sull’immigrazione molto restrittiva. E’ diventato il promotore di un nuovo federalismo che partiva dalla constatazione, assai pragmatica, che lo stato centrale non è in grado di affrontare e risolvere i problemi del paese. Nel suo secondo mandato possiamo dire invece che una ideologia ha preso il sopravvento: l’ideologia del libero scambio è diventata una pietra angolare del mainstream repubblicano, e così anche l’apertura a leggi sull’immigrazione più morbide”.
Scott Richert (foto tratta dalla sua pagina about.me)
Bush senior ha messo queste convinzioni sullo sfondo del “nuovo ordine mondiale”, e questo trionfo globalista, piuttosto affine al milieu del Partito democratico, ha scatenato la reazione delle sparute ma motivate truppe di Buchanan, che si opponevano alla trasformazione del Gop nel partito del “free trade” e della globalizzazione. “Il problema – dice Richert – è il libero scambio concepito come un bene in sé. La tradizione repubblicana suggerisce invece di valutare gli effetti del free trade sulla vita delle persone, non di idolatrare il principio. Anche perché, come diceva sempre il libertario Murray Rothbard, gli accordi di libero scambio non sono davvero liberi, ma sono trattati che favoriscono i governi e le grandi corporation: se sono davvero liberi perché sono regolamentati da migliaia di pagine?”. Giusto ieri Trump ha detto all’Economic club di New York che all’approvazione del suo piano economico “ogni decisione politica dovrà passare un test semplice: questo crea più posti di lavoro e salari migliori per gli americani?”.
Trump, spiega Richter, è il continuatore naturale di quella battaglia che è a un tempo reazionaria e pragmatica, ed è “troppo facile dire che non crede assolutamente in nulla di quello che dice”. In effetti, nel 1999 Trump trovava “incredibile” che qualcuno potesse votare “un fan di Hitler” che “odia i neri e gli omosessuali” come Buchanan, ma Richter declassa la famosa sfuriata a sfogo squisitamente politico: “Quel divorzio aveva altre ragioni, e lo dimostra il fatto che oggi è ritornata una grande affinità fra Trump e le idee di Buchanan. Pur non essendo un teorico, riconosce che le cose in America hanno preso una piega sbagliata. Il Partito repubblicano ha promosso guerre all’estero e incoraggiato l’immigrazione, ad esempio. L’America in cui Trump si è formato ed è cresciuto brillava di quella grandezza che ora è stata dissipata: lui arriva a questa conclusione per istinto e nostalgia, non per elaborazione teorica, ma fa davvero qualche differenza il percorso? Io credo di no. Se a novembre vincerà, come tutti i presidenti si circonderà di persone che padroneggiano ciò che lui afferra soltanto grazie al fiuto e all’esperienza”.
Richter è cattolico e ha otto figli che la moglie Amy educa a casa, protetti dal mondo, con un curriculum di ispirazione classica e tante ore di religione. Fra i paleocon di Chronicles ci sono molti cattolici tradizionalisti e distributisti chestertoniani che mettono al primo posto dell’agenda le questioni etiche, ma con l’esplosione del fenomeno Trump si è rinsaldata una strana alleanza con la corrente libertaria. I fedeli della messa tridentina si sono trovati a braccetto con intellettuali austriaci che non hanno altro dio al di fuori di Ludwig Von Mises. Da anni il Rockford Institute ha formato un’alleanza con l’istituto Von Mises dell’Alabama, crogiuolo del pensiero libertario in perenne tensione con l’establishment influenzato dai neocon. Trump ha messo insieme due anime apparentemente inconciliabili. “Siamo diversi – spiega Richert – ma è importante tornare a un’idea pragmatica e non moralistica della politica. Attraverso la lente del pragmatismo, si capisce che noi e i libertari abbiamo molto in comune, dall’avversione agli interventi militari dell’America, come quello in Iraq che ha provocato fra le altre tragedie anche la nascita dello Stato islamico, fino ai ‘finti’ accordi di libero scambio come il Nafta, passando per la riduzione del ruolo dello stato. Su questo possiamo lavorare insieme e insieme sostenere Trump, sul resto si continua a discutere”.
Fra le divergenze certamente spiccano le questioni sociali, a partire dall’aborto, che non è proprio al centro dell’agenda politica di Trump. Dice Richert: “E’ chiaro che a lui non interessano questi argomenti. Ma la verità è che per decenni anche molti repubblicani se ne sono fregati dell’aborto e del matrimonio gay, ma hanno continuato a combattere per finta una cinica ‘culture war’ per guadagnare i voti della destra religiosa, che votava a destra per riflesso condizionato. Bush padre ha avuto la possibilità di rimettere all’esame della Corte suprema la Roe v. Wade, e suo figlio poteva rimettere nelle mani dei singoli stati la controversia che poi ha portato alla legalizzazione del matrimonio gay. Non hanno sfruttato le occasioni, che li avrebbero resi impopolari. Erano davvero pro life e a favore della famiglia naturale? Ovviamente no, erano soltanto opportunisti. Se Trump è un opportunista almeno lo è in modo esplicito, non finge di essere il difensore dei valori cristiani. A un mentitore preferisco di gran lunga un politico disincantato che non è ostile a quelli come noi che lavorano per certe riforme sociali a livello locale”.