La sinistra bohème che vuole “salvare Israele da se stesso”. Ma lo stato ebraico sorride felice
Roma. In un video che gli ha creato non pochi guai, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, prima di lasciar intendere un possibile incontro con Abu Mazen in Lussemburgo, ha detto che il principale ostacolo alla pace è la volontà palestinese di imporre in qualunque accordo una vera e propria “pulizia etnica” degli ebrei dai Territori. Il giorno dopo, cinquecento esponenti dell’intellighenzia ebraica (ha aderito anche Gad Lerner dal suo sito Internet) hanno replicato a Netanyahu con un appello in cui invitano Israele a ritirarsi e a metter fine all’occupazione. “Se amate Israele, il silenzio non è più un’opzione possibile”, recita il manifesto. “L’avvicinarsi del 2017 segna il cinquantesimo anno dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi. La situazione attuale è disastrosa”. A firmare, romanzieri come David Grossman, Orly Castel Bloom e Amos Oz, cantanti come Noa, registi come Amos Gitai, ex ambasciatori come Eli Barnavi, ex direttori generali del ministero degli Esteri come Alon Liel e docenti come Daniel Bar Tal, che ha coniato l’espressione “occupartheid”. Il nome dell’organizzazione è tutto un programma: “Save Israel, Stop Occupation”. Sono quelli che amano così tanto Israele da volerlo salvare sempre da se stesso e mai dai suoi nemici.
Mai un appello contro le cinture esplosive prima e i coltelli palestinesi poi, i kassam di Hamas, i katiuscia di Hezbollah, il bunker iraniano di Fordo, le risoluzioni dell’Onu, il boicottaggio Ue. Forse per questo l’Unione Sionista di Isaac Herzog si è rifiutata di imbarcarsi nell’iniziativa. Per dirla con David Mamet, drammaturgo e vincitore di un Premio Pulitzer, “sono gli ebrei che negli anni Sessanta invidiavano le Pantere Nere; che negli anni Novanta invidiavano i palestinesi; che frignano davanti al film Exodus ma s’inalberano davanti alle Forze di Difesa israeliane; che sono pronti ad andare a un combattimento di cani, un bordello o una fumeria d’oppio, ma trovano assurda l’idea di una visita in sinagoga; che al primo posto tra i loro ebrei preferiti mettono Anne Frank e al secondo non sanno chi metterci…”.
Firma l’appello Avraham Burg, ex speaker del Parlamento israeliano per il quale “Israele è già morto”. Uno che ha così a cuore Israele da aver chiesto alle nuove generazioni di abbandonarlo. “Raccomandi a ogni israeliano di prendere un passaporto straniero?”, gli ha chiesto il giornalista Ari Shavit. “A tutti quelli che possono”, ha risposto Burg. Firma Ze’ev Sternhell, professore, un altro spasimante di Israele da aver scritto su Haaretz: “Non vi è alcun dubbio circa la legittimità della resistenza armata nei Territori”. Ai cinquecento andrebbe ricordato cosa è successo ogni volta che Israele ha posto fine a una “occupazione” senza nulla in cambio: i missili dal Libano del Sud; le bombe umane dalla Cisgiordania dopo Oslo; i razzi da Gaza. E per fortuna di Israele che non ha seguito i consigli dei cinquecento, perché altrimenti oggi sul Golan, anziché gli israeliani che curano i feriti della guerra civile siriana e che producono un ottimo vino con le bollicine, ci sarebbero i volenterosi carnefici del Jihad europeo. A dispetto di quanto scrivono i cinquecento, Israele festeggerà il 2017 in uno stato di grazia: ha relazioni con tutti i vicini (tranne l’Iran), ha siglato il più grande accordo di aiuti militari nella storia americana, i suoi tassi di mortalità sono i secondi più bassi dell’Ocse e quelli di fertilità i più alti, è il secondo paese più colto del mondo (dopo il Canada) e gli israeliani sono più felici di quanto non sia la maggior parte degli occidentali. Compresi i cinquecento profeti di sventura che, come Avraham Burg, sono andati a cercare la pace (povero lui) in una collina della Provenza.