Perché un villaggio di pescatori osa sfidare il Partito comunista cinese
Roma. In Cina c’è un villaggio di pescatori che da oltre cinque anni osa tenere testa al Partito comunista. Si chiama Wukan, è un borgo di tredicimila anime nella provincia del Guangdong, a sud del paese, e per anni qui si è concentrata l’attenzione di tutti gli studiosi politici e dei liberali di Cina. Nel 2011, Wukan si trasformò nella prima “piccola democrazia” cinese, dopo che una protesta dei cittadini, in gran parte pescatori e agricoltori, costrinse il governo a concedere libere elezioni per l’autogoverno della città. Oggi questo modello democratico è di nuovo in pericolo, e i pescatori sono di nuovo scesi in piazza sfidando il Partito e la polizia.
Nel 2011 i cittadini di Wukan insorsero contro i funzionari corrotti del Partito che avevano espropriato e venduto le loro terre per ottenere guadagno personale. Cacciarono i funzionari dalla città, occuparono le piazze e i palazzi amministrativi e iniziarono un lungo e in parte violento stallo con le autorità e la polizia. Complice la vicinanza del villaggio a Hong Kong, che dista solo poche decine di chilometri, i giornalisti internazionali iniziarono a parlare degli scontri di Wukan e il caso assunse rilievo a livello nazionale. Alla fine il governo di Pechino, che in quel periodo ancora stava ponderando la possibilità di avviare timide riforme politiche, cedette alle richieste dei cittadini e concesse l’anno dopo libere elezioni, oltre a quelle pilotate per le posizioni minori che già esistono nei villaggi dagli anni Settanta. Le vinse Lin Zuluan, il capo dei manifestanti. Da allora la piccola democrazia di Wukan è diventata un modello e una speranza per quella parte di Cina che sostiene che varare graduali riforme politiche senza danneggiare la stabilità sia possibile.
A Wukan, però, le cose sono andate sempre peggio. I cittadini non sono mai riusciti ad avere indietro le terre espropriate dai funzionari corrotti, e nel frattempo il clima politico nel resto del paese è peggiorato. Prima il timore del contagio delle rivoluzioni arabe, quindi l’ascesa al potere del presidente Xi Jinping – secondo i media internazionali il più autoritario dai tempi di Mao Zedong – hanno chiuso completamente le porte a ogni tentativo di riforma politica. Il modello Wukan è diventato una macchia da lavare via, e le autorità cinesi hanno prima accusato Lin Zuluan di corruzione, poi lo hanno condannato all’inizio di questo mese a tre anni di prigione. I pescatori e gli agricoltori di Wukan sono tornati in piazza per difendere il loro modello di libero governo, e gli scontri sono ricominciati.
Questa volta, come mostrano i video e le immagini pubblicate sui sociel network cinesi dagli abitanti stessi, i poliziotti sono arrivati a migliaia e in assetto antisommossa, hanno fatto perquisizioni notturne nelle case, arrestato decine di persone e ingaggiato battaglia per strada con i manifestanti. In un video si vede la polizia arretrare sotto una gragnola di sassi e mattoni lanciati dagli abitanti del villaggio: scene così in Cina non si vedono tanto spesso. Quella di Wukan non è una rivoluzione mirata a sovvertire l’ordine costituito. Gli abitanti del villaggio, che sanno che parte dell’esito della loro lotta dipende dall’attenzione dei media, sventolano bandiere cinesi e cantano slogan in favore del Partito, a cui chiedono un ritorno all’onestà. Lo stesso Lin è un membro del Partito.
Ma proprio perché non si tratta una “rivoluzione colorata” da schiacciare, ma di una protesta di cittadini che chiedono giustizia su un tema concreto come la restituzione della terra, gli scontri di Wukan sono particolarmente minacciosi agli occhi del Partito. Dal malcontento per lo smog e per i licenziamenti nelle fabbriche alle proteste “nimby” (si pensi alla cittadina di Lianyungang, nello Jiangsu, dove ad agosto migliaia di persone hanno protestato contro un progetto per lo stoccaggio in loco di rifiuti nucleari) la Cina comunista teme le proteste che si generano spontaneamente dal basso più di tutte le iniziative degli attivisti per i diritti umani e delle ong messi insieme. I sommovimenti di questo tipo sono sempre di più, e inquietano Pechino.