Libia, attacco a Msallata (foto LaPresse)

Dopo il rapporto Chilcot ecco quello sulla responsabilità di Cameron nell'intervento in Libia

Adriano Sofri
La deplorazione dell’uso della forza ha sempre dalla sua l’impossibilità di misurare gli effetti dell’omissione dell’uso della forza. Il soccorso a Bengasi minacciata si protrasse in un intervento mirato alla cacciata completa di Gheddafi, che è altra questione.

    Dopo il rapporto Chilcot sulla responsabilità di Tony Blair nella guerra all’Iraq del 2003, un rapporto della commissione esteri del parlamento britannico ha concluso duramente per la responsabilità di David Cameron nell’intervento in Libia del 2011. Quell’intervento, voluto soprattutto da Sarkozy, avvenne nell’immediata vigilia di una vendetta su Bengasi, che sarebbe stata sommersa, proclamava il vacillante Gheddafi, “da fiumi di sangue”. Il rapporto si occupa di temi diversi: le carenze dell’intelligence, l’inadeguatezza di una strategia politica rispetto alla scelta militare, l’incomprensione della complessità dei rapporti interni alla Libia, perfino il mancato ricorso alle conoscenze e alle capacità di Blair come negoziatore eccetera. Un punto cruciale è quello del pericolo incombente su Bengasi, giudicato sopravvalutato. Il rapporto pone problemi severi, perché al contrario di quello Chilcot sulle colpe di Blair (e Bush e gli altri autori dell’invasione dell’Iraq) per ciò che ha contribuito a far succedere, descrive ciò che sarebbe avvenuto se Cameron avesse omesso di contribuire all’intervento in Libia. Il primo stabilisce che cosa è successo, il secondo che cosa avrebbe potuto succedere.

     

    Il punto su Bengasi è particolarmente avventato: che il rischio di un bagno di sangue nella grande città assediata non fosse abbastanza fondato è una mera ipotesi. La deplorazione dell’uso della forza ha sempre dalla sua l’impossibilità di misurare gli effetti dell’omissione dell’uso della forza. In Libia, il soccorso a Bengasi minacciata si protrasse in un intervento mirato alla cacciata completa di Gheddafi, che è altra questione. Il giudizio è reso terribilmente più drammatico dalla vicinanza di un’altra data, quella del 2013 in cui le armi chimiche di Bashar al Assad oltrepassarono protervamente la linea rossa fissata da un Obama riluttante. Obama si era concesso quella linea ultimativa confidando che Assad non l’avrebbe mai superata, per non attirarsi la reazione degli Usa e  dei loro alleati (l’armamento degli oppositori, il lancio di missili contro le basi di partenza siriane). Putin si oppose e mobilitò le sue forze, si paventò la guerra mondiale, il suo parlamento fermò Cameron, il Papa indisse un digiuno universale per la pace. Obama restò a cuccia. Ieri in una rievocazione “storica” ho sentito esaltare "il gesto rivoluzionario del Papa”.

     

    Un rapporto futuro potrà fare il conto di quanti altri siriani sono morti ammazzati dopo di allora (150 mila?), quanti altri sfollati e profughi (milioni), quale strada si spalancò ai jihadisti che di lì a qualche mese avrebbero fondato il califfato eccetera (la storia è in pieno corso). Niente è più terribile del mestiere del Principe, insegnava Machiavelli: si devono prendere o omettere decisioni terribili, che gli umani comuni non vorrebbero mai affrontare. Il plauso universale di chi vive in pace va all’omissione. Alla pace salvata: forse del mondo, forse solo la propria. L’altra notte ho riguardato su Sky il bel film di Stephen Frears, “The Queen”, quello sulla morte di Diana. Alla fine Elisabetta e il suo primo ministro Blair si trovano in un incontro che da formale si fa affabile e quasi intimo. Blair rivendica di aver forzato la regina a mostrare al suo popolo la propria partecipazione al lutto per Diana per il bene della monarchia, la regina avverte maliziosamente che lui, Blair, ha mirato anche al proprio bene. Lei era in una situazione difficilissima, ribadisce Blair. Un giorno toccherà anche a lei, ammonisce la regina.