I profeti del “globalismo” annunciano l'apocalisse commerciale di Trump
New York. “Se le politiche commerciali promesse da Clinton sono dannose, quelle di Trump sono terribilmente distruttive”. La più autorevole sentenza (senza appello) sulle ricette protezionistiche di Donald Trump l’ha emessa Adam Posen, presidente del Peterson Institute, nell’introduzione a uno studio del think tank di Washington sulle politiche commerciali proposte dai due candidati alla Casa Bianca.
La dettagliata analisi sui dazi trumpiani e le altre misure per difendere l’industria domestica spiega che un approccio del genere “sarebbe disastroso per il benessere economico degli Stati Uniti e la sicurezza nazionale”, arrivando a scatenare una “guerra commerciale che riporterebbe l’economia americana in recessione e distruggerebbe più di quattro milioni di posti di lavoro nel settore privato”. La simulazione di una tassa sulle merci cinesi del 45 per cento e del 35 per cento su quelle messicane restituisce, secondo gli economisti dell’istituto, uno scenario apocalittico dove l’istantaneo congelamento dell’import-export farebbe precipitare i mercati finanziari ed esigerebbe inaccettabili tributi al mercato del lavoro. Le città più colpite sarebbero le più produttive: New York, Chicago e Los Angeles.
Questo senza considerare le inevitabili contromisure che Cina e Messico adotterebbero per danneggiare i responsabili di uno sgarbo che assume un profilo apocalittico nell’èra in cui la globalizzazione è un fatto assodato, non un processo in fieri. Hillary non sostiene l’accordo di libero scambio nell’area pacifica (Tpp), concessione tattica alla sinistra radicale e con istinti no global, e per questo si becca il rimprovero di un pensatoio altrimenti amico, che stima il valore potenziale di quell’accordo in 130 miliardi di dollari; ma, tutto sommato, la candidata democratica si attiene al paradigma commerciale abbracciato da Obama, che dei grandi trattati commerciali è il grande sponsor.
Il guaio, spiega Posen, è che a differenza di altri ambiti in cui i poteri dell’esecutivo sono limitati e rigorosamente bilanciati, nelle politiche commerciali il presidente ha mano libera: “C’è lo spazio giuridico e abbondanti precedenti perché il presidente possa alzare i dazi doganali in modo unilaterale. Tutti gli sforzi per bloccare le iniziative di Trump attraverso tribunali o riformando gli statuti al Congresso sarebbero complicati e richiederebbero un sacco di tempo”. Non è certo il primo centro studi che dà una valutazione negativa delle politiche economiche di Trump, ma in questo caso la disputa non è soltanto sui numeri, ma riguarda una concezione di fondo. Il Peterson Institute è un centro di altissimo profilo che esprime il consenso prevalente fra i banchieri, gli investitori e i grandi attori dei mercati finanziari globali, condotto da un board in cui siedono tutti i nomi che contano. Per dirla con la terminologia di Samuel Huntington, è uno dei quartiere generali degli “uomini di Davos”. Prima che un conflitto di dati, dunque, si tratta di una guerra ideologica che va a toccare il cuore del trumpismo, tenuto in vita dall’antagonismo schmittiano fra nazionalismo e globalismo.
La risposta della campagna del candidato repubblicano è stata esplicita: “Il Peterson Institute maschera la propaganda con gli abiti della competenza, promuove senza vergogna il globalismo e critica chiunque ha il coraggio di opporsi”, hanno scritto i consiglieri Wilbur Ross e Peter Navarro. Avara di controdeduzioni basate sui numeri e prodiga di attacchi all’ideologia di riferimento dell’Istituto, la risposta di Trump ha il pregio di togliere il velo che ammanta questa disputa che ha a che fare con una visione del mondo, non soltanto con i conti che quadrano: “Se il Peterson Institute vuole simulare in modo onesto il piano economico di Trump, deve tenere conto dell’intero piano – anche di quello fiscale, di regolamentazione e di politica energetica. Il fatto che non lo facciano è la prova che si tratta di una calunnia dei globalisti, non di una seria analisi, e come tale va considerata”, conclude la nota.
Dalle piazze ai palazzi